Con forme e colori cercava un modo di rappresentare l’umano che fosse più profondo. Da Forma I agli ultimi anni, nel centenario della nascita, la ricerca continua dell’artista siciliana al Pala Expo di Roma
Riemerge come un flusso travolgente di forme astratte e colori squillanti l’opera di Carla Accardi inondando le sale bianche del Palazzo delle Esposizioni a Roma. Nel centenario della nascita dell’artista siciliana la Capitale le dedica un’ampia e coinvolgente retrospettiva (fino al 9 giugno). Le sue creazioni sono presenti nei circuiti museali internazionali ma negli ultimi anni la sua opera è stata alquanto trascurata da critici e curatori. E sul perché ci sarebbe molto da interrogarsi, visto il grande significato che la sua opera ha avuto sul piano artistico ma anche nell’aprire la strada ad altre artiste nell’avanguardia del Novecento. All’indomani della guerra, mentre il suo docente all’Accademia di Venezia Arturo Martini le ripeteva che l’arte non è roba per donne e il padre le diceva che non si era mai vista una Raffaello donna, Carla Accardi realizzava due intensi autoritratti in pose raffaellesche e, nel frattempo, sperimentava a tutto raggio, abbandonando la figurazione, costruendo un proprio alfabeto personale di segni, fino a trovare una propria cifra originale con la serie dei “Bianchi e neri” che catturano potentemente lo sguardo dopo le prime prove scolastiche (e tuttavia interessanti proprio per capire l’entità della sua coraggiosa svolta). Quelle danze di segni percorse da un crescente ritmo interiore che ci attraggono nella prima grande sala suscitarono l’interesse del critico francese Michel Tapiè, che cominciò a parlare di lei come esponente della corrente dell’Art autre, mettendola accanto a Alberto Burri, Antoni Tàpies e Georges Mathieu. Ed era solo l’inizio.
Carla Accardi, Autoritratto (1946)
Attraversando le sale della mostra romana (ciascuna quasi monografica nel documentare le varie fasi creative dell’artista) curata da Paola Bonami e Daniela Lancioni si resta via via sempre più intrigati dalla fervida e continua ricerca di Carla Accardi. Dagli esordi in una attardata Sicilia, emulando Kandinskij, i Fauves e Picasso, fino a trovare un proprio linguaggio visivo che si esprime in continui e sempre nuovi giochi di forma e colore. Andando oltre ogni steccato che all’epoca era anche di genere. Certo lei era cresciuta in una famiglia siciliana colta che le aveva permesso di studiare, di frequentare l’accademia a Venezia, a Firenze e poi di trasferirsi a Roma, in via del Babuino, in quella casa con vista sui tetti che poi sarebbe stata sempre una casa studio, aperta agli incontri e al confronto con amici e colleghi, ma anche sede del gruppo Rivolta femminile, fondato nel 1970 insieme a Elvira Banotti, e Carla Lonzi da cui si allontanò perché la prassi dell’autocoscienza le andava stretta e le suonava troppo razionale e lontana dalla sua ricerca sulle immagini.

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