Sbaglia chi snobba il caso delle frasi razziste che sarebbero state pronunciate da Acerbi (Inter) nei confronti di Juan Jesus (Napoli), perché lo sport non c'entra nulla

Domenica 17 marzo. Sono le 22:00 circa e 1,6 milioni di italiani sono davanti agli schermi per assistere alla partita Inter – Napoli, valida per la Serie A di calcio. Partita che nella scorsa stagione sarebbe stata interessante per la corsa scudetto, ma non quest’anno. Troppo avanti l’Inter, troppo indietro in classifica il Napoli.

Il motivo d’interesse è un altro. È il minuto 59. La partita si arresta. Juan Jesus, 32enne difensore brasiliano del Napoli, richiama l’attenzione dell’arbitro La Penna. «Mi ha detto ne*ro, a me questo non sta bene», si legge dal labiale del calciatore. Parole che sarebbero state pronunciate dal 36enne difensore dell’Inter, Francesco Acerbi.

Juan Jesus indica anche la patch “Keep racism out” sulla propria maglia, visto che la Lega Serie A ha deciso che proprio la 29sima e la 30sima giornata del campionato debbano servire per promuovere “iniziative dedicate alla lotta al razzismo e ad ogni forma di discriminazione” con “una campagna che punta a prendere una posizione forte anche al di fuori del mondo calcistico”.

Sempre dalle immagini televisive si vede Acerbi, convocato dall’arbitro, scusarsi con Juan Jesus. La partita può riprendere. Tutto sembra finito lì, sul terreno di gioco. Tanto che il difensore del Napoli, intervistato alla fine del match, getta acqua sul fuoco: «lui ha visto che è andato oltre e ha chiesto scusa».

In realtà, è solo l’inizio di un caso che ha riempito le cronache italiane per due settimane prima di inabbissarsi e sparire dai radar.

Acerbi, infatti, è costretto a lasciare il ritiro della nazionale italiana, dopo esser stato inizialmente convocato dal Ct Spalletti; alle domande dei giornalisti, risponde negando di aver mai proferito offese razziste: «Dalla mia bocca non sono mai uscite. Sono 20 anni che gioco a calcio e so quello che dico. Sono tranquillo».

Non si fa aspettare la replica di Juan Jesus, che entra stavolta nei dettagli: «Per me la questione si era chiusa ieri in campo con le scuse di Acerbi […]. Oggi però leggo dichiarazioni di Acerbi totalmente contrastanti con la realtà dei fatti, con quanto detto da lui stesso ieri sul terreno di gioco e con l’evidenza mostrata anche da filmati e labiali inequivocabili in cui mi domanda perdono. Così non ci sto. Il razzismo si combatte qui e ora. Acerbi mi ha detto: “Vai via nero, sei solo un ne*ro…”. In seguito alla mia protesta con l’arbitro, ha ammesso di aver sbagliato e mi ha chiesto scusa aggiungendo poi anche: “per me negro è un insulto come un altro”. Oggi ha cambiato versione e sostiene che non c’è stato alcun insulto razzista».

Nel frattempo si muove la giustizia sportiva. Si apre un’inchiesta che potrebbe portare alla squalifica di Acerbi per un minimo di 10 giornate. I due calciatori vengono auditi dalla Procura federale che, infine, emette il proprio verdetto: nessuna squalifica per Acerbi, perché non ci sono prove sufficienti dell’insulto razzista a Juan Jesus.

La Società sportiva calcio Napoli pubblica un comunicato nel quale si dice “basita” per la decisione dei giudici sportivi. E aggiunge che la società “non aderirà più a iniziative di mera facciata delle istituzioni calcistiche contro il razzismo e le discriminazioni”, denunciando dunque la presunta ipocrisia delle istituzioni sportive.

Juan Jesus, invece, inizialmente risponde senza ricorrere ad alcuna parola. Cambia l’immagine del suo profilo Instagram, facendo campeggiare un pugno chiuso. Che a molti ricorda uno dei simboli del Black Power, la potentissima immagine di Tommie Smith e John Carlos sul podio delle Olimpiadi di Messico ‘68.

La vicenda si chiude – almeno per il momento – con un’intervista ad Acerbi pubblicata il 29 marzo sul principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera; e con i calciatori del Napoli schierati sabato 30 marzo in ginocchio al centro del campo in attesa del fischio d’inizio di Napoli-Atalanta, riprendendo un gesto simbolo delle proteste del movimento Black Lives Matter.

Sbaglia chi pensi che si tratti di una semplice storia di sport. E sbaglia ancor di più chi ritenga di poter snobbare quanto successo, perché in fondo stiamo parlando di due privilegiati, di due calciatori che in un solo mese percepiscono quanto un “normale” lavoratore non riesce a guadagnare nel corso di tutta la sua vita.

Sbaglia perché la vicenda Juan Jesus – Acerbi è l’ennesima emersione a galla di un fenomeno sempre più presente: il razzismo. Che emerge, con cadenza quasi settimanale, nel mondo del calcio. Ma nella maggior parte dei casi i razzisti sono i “cattivi” perfetti: i tifosi, quelli brutti, sporchi e cattivi. Quelli è facile condannarli. Più complicato quando a esprimere un’offesa razzista è uno dei tuoi beniamini, uno dei simboli della tua squadra del cuore, della tua nazionale.
Così in questi giorni è stato un proliferare di commenti tendenti a relativizzare, a sostenere che in fondo Juan Jesus avrebbe esagerato. Come ha fatto in sostanza lo stesso Acerbi che, sulle colonne del Corriere della Sera, quando ha affermato che «in campo si sente un po’ di tutto […]. Però finisce lì, altrimenti diventa tutto condannabile, anche gli insulti ai serbi, agli italiani, alle madri». Curioso che ad Acerbi siano venuti in mente proprio gli insulti ai serbi…
E poi ci sono quelli di “Non si può dire più niente”, pronti a lanciarsi nelle crociate contro quello che definiscono “politically correct” e che fanno finta di non sapere/vedere che oggi anche le più atroci espressioni sono invece consentite, al contrario di espressioni di mero buon senso, come uno “stop al genocidio a Gaza”, che è al contrario ancora tabù.

Sbaglia perché il racconto mediatico che c’è stato intorno all’episodio mette bene in luce alcuni fenomeni che vediamo spesso in azione. A partire dalla vittimizzazione secondaria. Com’è accaduto nell’editoriale di Dotto, editorialista di punta della Gazzetta dello Sport, principale quotidiano sportivo del Paese e ai primi posti della classifica dei giornali più venduti in Italia (più di 150mila copie quotidiane). A due giorni dall’episodio di San Siro, Dotto si rivolge a Juan Jesus, la vittima, dicendo che “ha sbagliato tre volte”. Ha sbagliato «quando s’è limitato a confessare all’arbitro il fattaccio»; quando «ha preteso di assolvere l’eventuale peccatore»; quando «ha raccontato nei social […] quello che avrebbe dovuto dire la sera prima davanti alle telecamere».
È la vittima che sbaglia. Sempre. Magari perché indossa una minigonna o perché percorre una strada isolata o perché beve una birra di troppo. O perché denuncia o perché non denuncia o perché denuncia ma con parole insufficienti.

Sbaglia perché il Corriere della Sera, che si è preso la briga di intervistare Acerbi (e non Juan Jesus), mostra bene cos’è troppo spesso il giornalismo italiano. In un intero paginone dedicato alle risposte del difensore dell’Inter c’è un file rouge ben presente e un elemento invece del tutto mancante. Il file rouge è il vittimismo dell’intervistato. Vittimismo che vediamo di solito all’opera quando a essere intervistate sono personalità dell’ultradestra del governo Meloni, sempre pronte a dipingersi come agnellini. Una modalità comunicativa che evidentemente ha fatto scuola anche nel calcio.
L’elemento mancante è l’unica domanda che probabilmente avrebbe avuto senso: “Acerbi, cos’ha detto davvero a Juan Jesus, visto che la versione è cambiata più volte in pochi giorni?”. Manca e così viene meno uno dei compiti chiave del giornalismo, quello di accertare come si siano svolti i fatti e su quella base – sulla base di un principio di realtà – produrre commenti e considerazioni.

Sbaglia perché il calcio, che piaccia o meno, non è solo ciò che accade nei 90 minuti di gioco. Né tantomeno un’isola, felice o infelice che sia. Il razzismo che vediamo negli stadi, sul terreno di gioco e sui giornali sportivi è il frutto del razzismo istituzionale e mediatico che vediamo all’opera tutti i giorni. Le campagne d’odio contro i migranti, contro gli “stranieri che vogliono comandare a casa nostra” non si fermano ai cancelli degli impianti sportivi. Ci entrano. Senza incontrare ostacoli.

Sbaglia, infine, perché il calcio e il racconto mediatico che ci si costruisce intorno contribuiscono a loro volta a plasmare il senso comune collettivo. Non è con lo snobismo di certe intellighenzia che lo trasformeremo in quello che Gramsci chiamava “buon senso”.

Questo articolo di Gliuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias

Nalla foto: I titolari e la panchina del Napoli si inginocchiano per protesta contro il razzismo prima della partita con l’Atalanta,  30 marzo 2024 (dal sito SscNapoli.it.)