«Chissà cosa sarei potuto diventare se fossi nato in un’altra parte del mondo», sono le parole dell’attivista e difensore dei diritti umani Mohamed Dihani. Sono parole che purtroppo noi giornalisti ascoltiamo spesso da chi è costretto a fuggire o lasciare il proprio Paese di origine per un motivo o per un altro e che ogni volta colpiscono profondamente. Come se il fatto di nascere in un luogo rispetto ad un altro rendesse uomini e donne più o meno esseri umani. Uomini e donne in tutto il mondo nascono uguali, eppure questa uguaglianza spesso fa paura e si è costretti a lottare anche per i diritti umani. Proprio come Mohamed, nato 37 anni fa nel Sahara Occidentale. In quell’angolo di mondo di cui si sente parlare poco.
Il Sahara Occidentale è un territorio dell’Africa nord-occidentale e popolato da genti berbere. Fu raggiunto, a partire dal XIII secolo., da gruppi beduini di lingua araba, che fondendosi con le prime popolazioni costituirono il nucleo originario della popolazione saharawi. Le zone meridionali (Río de Oro) e settentrionali (Saguia el-Hamra) divennero un protettorato di Madrid e nel 1958 furono costituiti in provincia metropolitana con il nome di Sahara Spagnolo (conservato fino al 1975). Alla fine degli anni 60 si istituì un movimento di liberazione e nel 1973 venne fondato il Fronte Polisario (Fronte di Liberazione Popolare di Saguia el-Hamra e del Río de Oro).
Nonostante l’Onu e la Corte internazionale di giustizia avessero riconosciuto il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi, nel novembre 1975 la Spagna concluse un accordo con il Marocco e la Mauritania per la spartizione del Sahara Occidentale fra i due Stati. Da quel momento la popolazione saharawi vive divisa, in parte nei campi di rifugiati in Algeria e in parte nel Sahara occidentale sotto il dominio del Marocco, dopo che la Mauritania nel 1979 si ritira dal conflitto. Nel 1976 veniva proclamata in esilio la Repubblica Araba Sahrawi Democratica (Rasd).
A partire dal 1980 il Marocco eresse un muro difensivo, arrivando a circoscrivere 200.000 km2 di territorio (su 266.000) unico muro che attraversa e divide il Paese da nord a sud. Nel 1991 Marocco e Rasd si accordarono per il cessate il fuoco e il Consiglio di sicurezza dell’Onu istituì la missione Minurso (Misión de las Naciones Unidas para el referéndum del Sáhara Occidental), con il compito di sorvegliare il rispetto del cessate il fuoco, di facilitare il rientro dei profughi e di supervisionare un referendum di autodeterminazione, previsto per il 1992. Da allora le ostilità non sono cessate e il referendum è stato continuamente rinviato. Il Marocco che da sempre ha negato i diritti del popolo saharawi dal 2022 lo fa anche con la complicità della Spagna (Vedi Left 27 aprile 2022. “Anche Sanchez tradisce i profughi saharawi” di Marina Turi). Ad oggi il Sahara Occidentale aspira alla sovranità nazionale ed al completo riconoscimento a livello internazionale.
È in questo contesto che è nato Mohamed, all’interno di quei 2.600 chilometri di muro costeggiati da mine antiuomo.
«Avevo 9 anni quando sono stato segnalato la prima volta. Ero a scuola e ascoltavo gli attivisti protestare. Non conoscevo cosa significasse la parola “Polisario” eppure l’ho pronunciata a voce alta. Non sapevo non si potesse parlare del popolo saharawi e del Polisario».
Da quel momento in poi Mohamed è stato per lungo tempo vittima di gravi violazioni dei diritti umani, che vanno dalla detenzione arbitraria, alle torture, alle molestie legali e amministrative e alla sorveglianza e questo per il suo essere diventato attivista e difensore dei diritti umani del popolo saharawi. Un attivismo esercitato sempre in modo pacifico.
«Era il 28 aprile 2010 quando sono stato rapito. Mi hanno portato in un carcere segreto utilizzato per le torture e per i sequestri. Mi hanno tenuto lì per 5 anni e 7 mesi di cui 4 anni in isolamento totale, in una stanza di un metro e mezzo dove non potevo vedere il sole».
Dopo tanto tempo e con il supporto e la protezione di Amnesty International il 22 luglio 2022 Mohamed Dihani è arrivato all’aeroporto di Fiumicino. Ad oggi Dihani è ancora in attesa di una risposta dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma.
In questo lungo percorso drammatico ci sono dei momenti veramente preziosi e di spensieratezza per Mohamed. «La prima volta che sono venuto in Italia era il 2002, avevo 15 anni». Il padre di Mohamed, che lavorava in Italia, era riuscito a farlo arrivare con un documento di ricongiungimento familiare. «Non dimenticherò mai quel giorno, eravamo a Piombino e mio padre mi diede il permesso di stare fuori casa tutta la notte con un mio cugino. Io che ero abituato al coprifuoco da quando sono nato mi sembrava incredibile poter restare fuori fino alle due di notte».
«L’Italia mi ha cambiato molto, qui ho capito come vorrei vivere la mia vita. Da anni non mi sentivo al sicuro e mi guardavo sempre le spalle. Piano piano mi sono sbloccato e adesso mi sento libero. Ho finalmente trovato il mio spazio, questo perché ho trovato persone e rapporti validi» racconta Mohamed.
Abbiamo intervistato Mohamed all’interno di “Jaima” la settimana dedicata alla cultura Saharawi (Dal 12 al 20 aprile – Studio 110| Via dei Volsci, 110, Roma). Una settimana densa di appuntamenti e arricchita dalla mostra fotografica di Renato Ferrantini “Saharawi – Oltre l’attesa”, frutto del suo viaggio nei campi di Tindouf (Algeria) nel 2023. Una mostra itinerante che ha già visto la luce in diverse città italiane.
Jaima è la tipica tenda del deserto dove si svolge il rituale del tè, un momento molto importante per i saharawi perché in quel momento si può parlare e discutere di tutto. Il tè che viene versato nella tazzina scandisce il tempo con un ritmo tutto suo. I saharawi non potendo stare tra le dune del deserto mettono la tenda sul tetto di casa come ci racconta Mohamed che ricorda bene l’ultima volta che ha preso il tè con la sua famiglia. Era luglio del 2019, un ultimo saluto prima di partire e da allora non ha più visto la sua famiglia.
Il progetto fotografico si sviluppa su un percorso visivo e descrittivo di venticinque foto accompagnato da interviste e testimonianze sulla condizione politica e sociale delle donne e degli uomini che lo abitano, in esilio da più di 40 anni.
Quello che colpisce della mostra è l’ambiente accogliente che la curatrice Laura Lombardi ha saputo ricreare. Un’organizzazione ben riuscita soprattutto per le tantissime persone presenti curiose di sapere qualcosa in più di quel lato di mondo di cui come abbiamo detto prima non si parla spesso. Il filo conduttore delle opere di Ferrantini è l’umanità. Quella che ha trovato nello sguardo di un giovane ragazzo che guarda verso l’infinito, forse immaginando il suo futuro. Nel sorriso dei bambini che giocano ancora spensierati. Forse ancora non sanno che sono nati nella parte sbagliata del mondo come ci suggeriva Mohamed. Nello sguardo e sorriso meravigliosi di una giovane donna che si vedono poco perché ha lo sguardo abbassato e che solo un osservatore attento può coglierne la bellezza. Alcuni bambini che raccolgono delle piantine verdi nate tra la sabbia del deserto dopo un acquazzone. Quel verde in totale contrasto con il giallo predominante del deserto, forse un auspicio di un’umanità sempre possibile.
La mostra
Fino al 20 aprile Studio 110 (@studio110art) la mostra fotografica di Renato
Ferrantini “Saharawi – Oltre l’attesa”, frutto del suo viaggio nei campi di Tindouf nel 2023.
La mostra è l’occasione per conoscere da vicino la storia e la cultura Saharawi (letteralmente “gente del deserto”) attraverso una serie di eventi collaterali. Oltre alle immagini fotografiche, Studio110 espone oggetti di artigianato, stoffe, tappeti, per evocare, attraverso gli oggetti della cultura materiale, l’atmosfera di una Jaima Saharawi.
Finissage : sabato 20 aprile – ore 18-23
In apertura: foto di Renato Ferrantini dalla mostra “Saharawi – Oltre l’attesa”