Il nuovo romanzo "Lettere a una fanciulla che non risponde" di Davide Orecchio è un viaggio distopico nella fantascienza che è già qui. Abbiamo incontrato lo scrittore per sapere di più della sua ricerca

Immagino che Calvino de Le città invisibili avrebbe accolto con grande interesse Lettere a una fanciulla che non risponde, l’ultimo romanzo – sorprendente, va detto subito – di Davide Orecchio (edito da Bompiani), dove il protagonista è un robot, ovvero una macchina che scrive lettere d’amore. Non corrisposte. L’intelligenza artificiale che interpreta un sentire umano perduto per sempre in questo mondo capovolto e probabilmente senza speranza alcuna se non quella di restare, finché durerà, in questa posizione. A faccia in giù, senza risposta. Dove il sentimento primario dell’amore è disintegrato nelle mille. Quella macchina, il robot innamorato, “ama” una donna che non ha mai avuto e scrivendo tenta di mantenere un legame che possa restare nel tempo. Nero su bianco. Soltanto per lui, ultimo romantico, un robot, sul pianeta. Lo fa, appunto, col mezzo più antico: la lettera. Lettere, sono 12, scritte in quel futuro di fantascienza, con carta e inchiostro. Livia, la fanciulla silenziosa, legge. Non risponde al nostro soldato innamorato, ma commenta a proposito di un amore di gioventù, anche questo perso. L’unico amore “umano” che sta nel libro. «Gli strumenti usati dal robot sono una risma di carta, un pennino e l’inchiostro – riflette con noi Orecchio -. Mezzi preistorici, come li definisce la macchina, facendo riferimento al suo tempo, che è un tempo alternativo al nostro, tanto che questi strumenti destano ironia e stupore. Lui, il robot, versa in uno stato di completa disperazione. Invia lettere senza sapere neppure se la destinataria leggerà. Continua comunque a inviarle, imparando la scrittura con questi mezzi rudimentali perché non ha altro modo di comunicare. Impara a scrivere, tiene in vita il “rapporto”. È un modo per restare vivi, come in Mille e una notte, l’archetipo è quello». Un substrato psicologico, sul quale si sviluppa la narrazione, che rievoca l’attesa. «A me piaceva anche fare attrito ironico tra il mondo fantascientifico e l’inserimento di elementi non tecnologici. Non un atto nostalgico – commenta Orecchio – ma un piacere nel provare a utilizzare uno strumento letterario che è il romanzo epistolare, tassello importante nella tradizione romanzesca occidentale. Mi piace la comunicazione epistolare, il racconto attraverso la lettera, ci sono due parti che si raccontano il mondo quindi ho dato sfogo al desiderio di utilizzare questo territorio letterario. Raccontare con penna e carta è anche una critica implicita al modo in cui si usano le parole nel mondo digitale in maniera più veloce, più superficiale, più sintetizzata. La destinataria a margine delle lettere annota delle osservazioni con la penna». La storia si intreccia con un’altra storia. Quella di un amore adolescenziale vissuto dalla donna, appunto. Un racconto, perciò, su due piani. «E trentanove note a margine sono i commenti che la fanciulla fa alle lettere che riceve e non sembrano essere un dialogo con la macchina che scrive. L’amore e l’affetto che le lettere che la donna riceve manifestano in maniera esorbitante le risvegliano la storia, e qui siamo in piena malinconia e nostalgia, di questo primo amore vissuto in un anno di liceo. Rievoca ricordi lontani, istigata dal sentimento delle missive che riceve. Da un lato è una donna crudele perché ha piantato in asso questa macchina né da una risposta ai suoi scritti, c’è un’estrema crudeltà che spesso è un ingrediente di una storia che finisce. Dall’altro anche lei inizia a ricordare il suo amore, l’unico avuto nei confronti di un essere umano». Torniamo, appunto, qui. All’amore, secondo Davide Orecchio, di questo tempo perduto. È dura da digerire scoprire che viviamo in un posto dove non c’è più spazio per i sentimenti, ma anche mettersi di fronte allo specchio tutti quanti. Soprattutto chi non è capace di quel salto di maturità necessaria a mantenere viva una relazione. «È una riflessione quasi cinica sui sentimenti di oggi – spiega infatti lo scrittore –. Ci disfiamo delle persone, ecco. Quello raccontato è un rapporto strumentale, ma è più sotto traccia rispetto a un altro. Il robot è l’interprete di un’identità maschile. È anche un uomo a tutti gli effetti che fallisce nella relazione con la sua compagna perché non è all’altezza di questo rapporto, del bisogno di cure che ha lei quando si ammala. Quando subentra la malattia questo amore deve evolvere anche in accudimento. Lì la macchina-uomo sbaglia tutto, al punto da spaventare questa donna e spingerla a mandarlo via». 
Del futuro delle relazioni sentimentali, Orecchio immagina «un domani in cui possa esserci una relazione molto simbiotica tra essere umano e macchina. Certo questo non appartiene ai prossimi dieci o quindici anni, ma ad un tempo molto più distante da noi. Forse cinquanta, sessant’anni. Quello che però mi sembra interessante non è la paura della macchina, dell’intelligenza artificiale, dell’estraneo a noi che siamo umani ma la possibilità che le macchine possano portare dentro di sé qualcosa di umano. Il robot del romanzo è una macchina che “si umanizza”, ecco, e questo penso che accadrà se si dovranno soddisfare bisogni di compagnia che inevitabilmente porteranno dentro una componente di umano. Si potrebbe aprire un territorio sconfinato anche di soluzioni di tantissime solitudini. Il nostro mondo multimediale e digitalizzato è estremamente solitario. Potrebbe essere la soluzione ad un problema grave della nostra società». Da brividi, se ci pensiamo. E l’ignoto spaventa sempre. Dalla lettura del romanzo, l’arcano sembra rinnovarsi. «Degli elementi sociali dell’intelligenza artificiale, della sostituzione di un’attività umana da parte delle macchine siamo consapevoli – sottolinea l’autore –. C’è un rischio di progressiva inutilità dell’essere umano in tante sue mansioni che non sono necessariamente professioni o mestieri ma anche elementi che creano l’identità dell’essere umano stesso. Riguarda tutto, dai lavori creativi fino alle fabbriche. Questo mi preoccupa. Un mondo in cui la macchina ci ruberà gran parte delle attività e ragioni di essere». Pensiamo dunque al cinema. Ci sono tanti esempi di pellicole sul rapporto tra esseri umani e robot, e il romanzo sembra muoversi lungo un comune fil rouge. «Ci sono tanti film che mi hanno affascinato – ricorda Orecchio –. Tra tutti Intelligenza Artificiale di Spielberg dei primi anni 2000. Un capolavoro. Quel bambino-macchina perdutamente innamorato della madre che viene cacciato, espulso da casa e passa tutto il resto della sua vita a inseguire questo grande amore perduto. È un innesco forte della mia immaginazione rispetto a questi temi e a questo libro. C’è un clima fantascientifico cinematografico prima che letterario che ha influenzato moltissimo me e quelli della mia generazione». Con questo libro e con l’autore delle lettere, facciamo uno straordinario viaggio in quel futuro distopico che c’attende, con un occhio, come si diceva a Calvino e un altro al Cavazzoni di Guida agli animali fantastici, un mondo fatto di macchine, animali, i maiali per esempio, che lavorano nei cantieri edili, oppure struzzi a tre gambe ed esseri multiarto. Sullo sfondo, un clima di soprusi e violenza. Una fotografia che è già qui, appena fuori dalle nostre porte. Come salvarsi? Con l’arma più vecchia dell’universo: l’amore.