Quando il 23 maggio scorso le Nazioni Unite hanno approvato la risoluzione che riconosce ufficialmente il massacro di Srebrenica come “genocidio” e istituisce la “Giornata mondiale della memoria” ogni 11 luglio, diversi Paesi hanno levato gli scudi opponendosi con il proprio voto: «Aprirebbe un vaso di Pandora di vecchie ferite, creerebbe un caos politico» sono stati i commenti del presidente serbo Aleksandar Vučić, che ha invitato gli Stati membri a votare contro. Oltre alla Serbia e Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, si sono espressi contro la risoluzione 19 Paesi tra cui Russia, Cina, Ungheria.
Un intero fronte (lo stesso che si è dimostrato favorevole a Putin negli ultimi anni di guerra) si oppone al riconoscimento della più grande uccisione di massa dopo la seconda guerra mondiale: l’11 luglio del 1995 più di 8mila uomini e ragazzi bosniaci sono stati torturati, uccisi e gettati nelle fosse comuni dai miliziani serbi nei pressi di Srebrenica, territorio montuoso della regione bosniaca, in una zona protetta dai caschi blu olandesi dell’Onu: una tragedia i cui responsabili sono stati accertati e puniti solo di recente.
Nel 2019, la Corte suprema olandese ha confermato la responsabilità parziale dei Paesi Bassi per la morte di circa 350 musulmani bosniaci assassinati dalle forze serbe a Srebrenica.
La condanna di Ratko Mladić, capo militare dei serbi e tra i responsabili del massacro, è arrivata solo nel 2021 dal Tribunale Internazionale dell’Aja mentre quella di Radovan Karadžić, ex presidente della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina, è arrivata nel 2016. I capi d’accusa: crimini contro l’umanità e genocidio.
Ad oggi, per molti, i due sono eroi nazionali, secondo le testimonianze del Srebrenica Memorial Center, che nel 2021 ha analizzato in un report gli episodi di negazionismo del genocidio. Non è raro trovare scritte e disegni sui muri in questi anni che inneggiano ai capi militari serbi.
Un revisionismo istituzionalizzato: il presidente serbo Aleksandar Vučić, con una bandiera addosso, immediatamente dopo la risoluzione Onu di maggio, ha dichiarato: «Coloro che volevano umiliare il popolo serbo hanno fallito e non ci riusciranno mai. Volevano colpirci, ma non ci sono riusciti e non ci riusciranno mai. Viva il popolo serbo, viva la Serbia!»,
opponendo il nazionalismo alla memoria di un genocidio.
La risoluzione istituisce la giornata internazionale della memoria, condanna ogni negazionismo, esorta i Paesi a intraprendere azioni educative per commemorare e sensibilizzare contro i crimini di genocidio.
La marcia della morte ora marcia della Pace
«Risoluzione che avrebbe dovuto essere ratificata molto prima», sostengono gli organizzatori della marcia della pace, Mars Mira, una commemorazione che ripercorre quella che fu la “marcia della morte”, la fuga nei boschi intorno a Srebrenica che circa 15mila bosniaci (tra cui donne e bambini) intrapresero per più di 100 km per cercare di mettersi in salvo. Due terzi di loro furono catturati e uccisi.
La “morte” ha lasciato spazio alla “pace” nelle intenzioni degli organizzatori, che raccontano di una marcia partecipata ogni anno da 5-6mila persone e che richiede un lungo lavoro annuale di advocacy per la riconciliazione e la pace.
Solo lo scorso luglio il governo della Federazione di Bosnia ed Erzegovina ha dichiarato l’11 luglio Giornata nazionale di lutto per le vittime del genocidio di Srebrenica ma la memoria della tragedia collettiva è viva ogni giorno nel Paese e non trova pace. Continua infatti periodicamente l’identificazione di cadaveri nel Podrinje identification project di Tuzla, uno dei più grandi e attivi centri di identificazione delle vittime al mondo. Il progetto, patrocinato dall’International commission on missing persons (Icmp), utilizza tecnologie all’avanguardia con le quali è stato possibile negli anni il ritrovamento di 23mila persone delle 30mila scomparse durante la guerra di Bosnia. È il maggior numero di persone scomparse recuperate e identificate a seguito di un conflitto armato in qualsiasi parte del mondo, fatto che ha reso il Paese uno dei più avanzati nel settore della ricerca forense.
Le fosse comuni in Bosnia ed Erzegovina hanno richiesto approcci unici per identificare le vittime recuperate da esse. Più di 90mila persone hanno donato il proprio sangue alla Commissione internazionale per le persone scomparse, sperando di scoprire il destino dei loro cari.
Ogni anno i resti di alcune vittime identificate vengono seppelliti al cimitero di Potočari che ospita le 6.751 vittime del genocidio riconosciute finora. Durante il corteo commemorativo di quest’anno, verranno sepolti i resti di 14 persone, di cui il più giovane aveva 17 anni, il più anziano 68. Furono uccisi per la maggior parte giovani tra i 20 e i 40 anni. Al cimitero di Potočari ad oggi sono ancora senza nome 1.700 persone disperse, i cui resti devono ancora essere trovati e identificati.
Tra le raccomandazioni, la risoluzione Onu del 23 maggio «sottolinea l’importanza di completare il processo di ricerca e identificare le restanti vittime del genocidio di Srebrenica e accordare loro sepolture dignitose». La questione delle sepolture è, infatti, una ferita aperta nella memoria. «L’esercito serbo si accanì sui cadaveri con la collaborazione delle società dei servizi pubblici che accettarono di fare a pezzi i corpi e spostarne i resti dalle fosse comuni primarie in luoghi secondari, a volte a centinaia di chilometri», raccontano da Mars Mira.
La tragedia negata
La risoluzione Onu è stata definita dalla Serbia e dai Paesi che si sono espressi contro, “politica”. Ma politico è il negazionismo che si accanisce contro le atrocità di cui un intero popolo porta ancora addosso le conseguenze.
Gli organizzatori della Marcia raccontano che, dopo la legge del 2021, il negazionismo tra la popolazione civile è diminuito, o diventato meno esplicito. La legge, fortemente voluta da Valentin Inzko, Alto Rappresentante Onu per la Bosnia-Erzegovina, mette al bando la negazione pubblica, l’apologia, la banalizzazione o la giustificazione del genocidio, dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra quando ciò avviene in un modo che «potrebbe incitare alla violenza o all’odio».
Inzko all’epoca affermò di aver preso questa decisione perché la negazione del genocidio e dei crimini di guerra creava «una notevole difficoltà» per l’attuazione civile dell’accordo di pace di Dayton (l’accordo che sancì la fine della guerra in ex Jugoslavia e l’intangibilità delle frontiere).
In realtà, fino al 2021, quando il Sebrenica Memorial Center pubblica il suo dossier, la propaganda negazionista imperversa a vari livelli e lavora ai fianchi della memoria su più fronti: mettendo in discussione il numero e l’identità delle vittime, con teorie del complotto che diffondono dubbi sulle sentenze dei tribunali internazionali, e con un revisionismo storico nazionale trionfalista.
Durante il periodo di riferimento, dal 1 maggio 2020 al 30 aprile 2021, sono stati identificati 234 atti di negazione del genocidio nel linguaggio dei media della Bosnia-Erzegovina e della regione circostante. La maggior parte di questi incidenti (142) sono stati registrati in Serbia, 60 in Bosnia-Erzegovina (di cui 57 nella Republika Srpska) e 19 in Montenegro. La maggior parte dei negazionisti opera proprio nella politica: si tratta di leader e membri di partiti, nonché funzionari pubblici. In decine di casi sono persone che ricoprono cariche pubbliche nell’esecutivo del governo. Dopo la politica vengono i media: non sono rare le pubblicazioni di articoli e resoconti negazionisti nei settimanali e opuscoli diffusi in questi anni nei Covid hospital di Belgrado. E ancora, manifestazioni che glorificano i criminali di guerra, graffiti che celebrano Ratko Mladić e il nazionalismo serbo. Nei racconti serbi del genocidio le condanne vengono considerate “politiche”, con la stessa argomentazione con cui si archivia la decisione Onu, mentre vengono diffuse teorie su una cospirazione internazionale antiserba e si assiste a episodi di vandalismo e razzismo nei confronti delle comunità musulmane bosniache. Perfino l’arte e la creatività vengono messe al bando dai negazionisti: il film Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanić, la storia di un’interprete bosniaca che lavora alla base Onu di Srebrenica, presentato nel 2020 alla Mostra del cinema di Venezia, è stato criticato e denigrato perfino per la scelta del nome Aida, considerato non sufficientemente musulmano. Il film fu definito dal negazionismo serbo “film di propaganda”. Gli attori che hanno recitato nel film bollati come traditori.
Accade anche che la storia scritta dai vincitori, quando non nega, nasconde. O racconta parzialmente. Circa due anni dopo l’accertamento delle responsabilità dei caschi blu olandesi che si ritirarono da Srebrenica, zona protetta, di fronte all’esercito serbo nel luglio del 1995, l’Olanda, a febbraio 2021, decide di risarcire i veterani per i traumi conseguenti all’aver assistito al massacro. Nonostante l’ammissione di un evento così tragico, il genocidio di Srebrenica nei Paesi Bassi non viene raccontato, o descritto en passant sui libri di storia come un episodio delle guerre jugoslave conseguenti alla guerra fredda, o tasmesso ai giovani dal punto di vista dei soldati olandesi senza che si parli di genocidio, o di pulizia etnica.
Nei Balcani l’odio etnico, la retorica nazionalista, e gli scontri all’interno del governo tripartito in Bosnia ed Erzegovina, acuiti dall’invasione russa dell’Ucraina, minano ancora il fragile equilibrio costruito dagli accordi di Dayton.
Lo scorso marzo il Consiglio europeo ha approvato l’avvio dei negoziati di adesione della Bosnia ed Erzegovina all’Unione, mentre la Serbia dovrebbe fare ancora molta strada in termini di riforme democratiche per concretizzare il proprio percorso di adesione all’Ue. Percorso che probabilmente non interessa poi così tanto a Vučić, visto il legame sempre più simbiotico con la Russia di Putin.
Dopo il genocidio e il suo devastante impatto sulla società civile e sui sopravvissuti, non ci sarà riconciliazione possibile in Bosnia ed Erzegovina che prescinda dal riconoscimento unanime del genocidio di Srebrenica, da parte della società civile e della comunità internazionale. La risoluzione Onu, in definitiva una specie di ammenda delle responsabilità delle Nazioni Unite, è solo il primo passo.
Nella foto: Il muro con i nomi delle vittime di Srebrenica