Il Mezzogiorno ha già visto negli anni l’esodo massiccio di tanti giovani. Per l’antropologo calabrese è il momento di invertire la tendenza: «Io la chiamo politicizzazione della restanza»
C'è chi l’ha chiamato «Mezzogiorno di vuoto», un efficace gioco di parole per raccontare il grave problema dello spopolamento di alcune aree del nostro Paese. Circa 2 milioni e mezzo di persone hanno lasciato il Sud negli ultimi vent’anni. Prevalentemente si tratta di giovani con un’istruzione medio-alta. Una tendenza destinata ad aggravarsi, come sostiene chi prevede che nei prossimi cinquant’anni la popolazione meridionale si dimezzerà o quasi, passando dagli attuali 20 milioni a 12, con la componente degli anziani che diventerà sempre più rilevante. Un fenomeno che contribuisce ad accentuare arretratezza e malessere sociale. E come se non bastassero già le difficoltà di tanti territori meridionali, che da decenni si trascinano dietro problemi irrisolti, ad aggravare la situazione arriva anche la riforma Calderoli, che dà attuazione al Titolo V della Costituzione e introduce la cosiddetta autonomia differenziata. Le Regioni che ne faranno richiesta (al governo centrale) potranno deliberare - in modo autonomo, appunto - su altre 23 materie molto delicate, dalla sanità ai trasporti, dall’istruzione all’ambiente. Il rischio, secondo giuristi e politologi, è che la differenza tra Nord e Sud possa ulteriormente aggravarsi (soprattutto su salute e istruzione), nonostante le rassicurazioni sui Lep, i livelli essenziali di prestazione da rispettare. Si rischia così di passare dall’Italia a due velocità all’Italia che - per metà - potrebbe rimanere quasi ferma. Per questo, ripopolare le aree interne del Sud diventa una sfida politica, a patto che si riesca a garantire i servizi necessari per “trattenere” le persone, per consentire di vivere senza affanni, senza vederle costrette a partire. Aiutandole a restare, insomma. La “restanza” è proprio il concetto centrale della produzione intellettuale dell’antropologo calabrese Vito Teti, 74 anni, che ha dedicato gli studi di tutta una vita ai temi dello spaesamento, dell’abbandono, alle macerie lasciate da un economicismo senza freni. Ma “restanza” non è sinonimo di “fermo”. Anzi. Per Teti, “restare” indica qualcosa di passivo. “Restanza”, invece, esprime un movimento attivo, una scelta, la possibilità di qualcosa di nuovo. Abbiamo incontrato lo studioso lì dove è tornato a vivere, a San Nicola da Crissa, in provincia di Vibo Valentia, un paese di mille anime che dal capoluogo più vicino si raggiunge dopo mezz’ora di strade tortuose che si districano tra lecci e castagni. Se “partire è un po’ morire”, rievocando i versi del poeta Edmond Haraucourt, restare vuol dire sopravvivere? L’antropologo fissa subito dei paletti. «Restanza non è in contrapposizione a mobilità o a viaggiare: più si viaggia, più si va incontro a nuove persone e luoghi, più si incontra l’altro, più si può creare un restare attivo, dinamico, propositivo, che possa cambiare il mondo» sottolinea Teti. Restare richiede responsabilità, «impegno, costanza, passione. Io la chiamo “politicizzazione della restanza”, l’affermare il diritto a restare come si afferma il diritto a partire. Partire o restare non devono essere delle necessità ma delle scelte», aggiunge ancora. Ma si può decidere di restare se nel proprio contesto si studia in edifici scolastici vecchi e fatiscenti, ci si cura in ospedali meno attrezzati, ci si sposta su mezzi pubblici poco efficienti? O ancora peggio, se questi servizi non vengono affatto garantiti nelle aree più periferiche che costituiscono l’osso di una regione?
Una immagine dell'antropologo e saggista Vito Teti
Sui rischi generati dall’autonomia differenziata anche Teti ritiene che non faccia «che condannare definitivamente luoghi, paesi e città. Che in realtà avrebbero bisogno di risorse economiche, non solo di sostegno, molto più grandi di quelli che avevano prima. Ora, con la scusa dell’autonomia differenziata, vengono ulteriormente penalizzati. È come dire: prima creiamo la disuguaglianza, le zone marginali, periferiche, povere. Poi, siccome vediamo che queste zone non ce la fanno, invece di sostenerle ci distacchiamo per liberarci della zavorra. Questo è un atteggiamento egoistico, che bada semplicemente al proprio immediato interesse. E non comprende, per altro, che desertificando il Sud, le zone interne, la campagna, senza persone nuove che arrivano, alla lunga ad essere danneggiate saranno le stesse zone che adesso chiedono l’autonomia differenziata. Anche per i grandi centri ci saranno ricadute negative perché dovranno privarsi di uno scambio proficuo con le aree marginali e alla lunga dovranno fare a meno di prodotti della terra, di luoghi dove andare a trascorrere le vacanze. Subiranno la perdita della bellezza, del paesaggio» è la previsione di Teti.

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