È una street artist attiva in tutto il mondo. Dipinge sui muri bambine e ragazze perché, dice, «manca una narrazione delle donne». In questa intervista l'artista racconta la propria ricerca e la storia di un paese delle aree interne rinato grazie all’arte urbana
«Io spero che un giorno si arrivi alla parità, nel senso che le donne non avranno più bisogno di dimostrare nulla», dice Alice Pasquini, un’artista le cui opere figurano sulle superfici urbane, nei musei e nelle gallerie in tutto il mondo. Sono lavori che mettono al centro l’immagine femminile, perché «manca una narrazione delle donne», come dice in questa intervista in cui parla della sua formazione, delle sue idee sull’arte urbana e sul rapporto con la realtà in cui opera. Come il paese di Civitacampomarano (Campobasso) dove Alice Pasquini è la direttrice artistica del Civita CVTà Street Fest, che a giugno ha chiamato a raccolta artisti italiani e internazionali. Alice Pasquini, com’è nata in te la scelta di diventare una street artist? Prima del termine “street art”, che nasce attorno al 2009-2010, i lavori si chiamavano graffiti, erano “brutti e cattivi” e basta. Quanto a me, la passione per l’arte nasce molto presto, da bambina, ero convinta che fare arte, essere un pittore, fosse un lavoro. Era l’idea di società di una bambina... Però la passione è nata anni dopo in Accademia, nel senso che dopo aver fatto tutto il percorso funzionale, in teoria, per poter entrare nel mondo dell’arte, in un contesto molto più “antico” di quanto non sia adesso, la reazione al mio professore che mi diceva tutti i giorni: “l’arte è morta con Duchamp, finirete tutti a via Margutta, non troverete lavoro” mi ha portato a entrare in contatto con un’arte che per me era più vera. Quella che avevo conosciuto negli anni del liceo, quando la cultura hip-hop è arrivata in Italia, in ritardo rispetto all’America, ma che ha cambiato per noi, forse per una generazione, anche il modo di vivere la città. In che senso? Voleva dire, per esempio, che passavamo i nostri pomeriggi in strada, in piazza, mentre c’era chi faceva la break-dance su un pezzo di cartone con un altro che sapeva fare il suono della batteria con la voce; non c’era bisogno di andare nella migliore scuola di musica, o di danza, anzi, più eri originale, più inventavi una cosa tua, più eri tu a fare scuola per gli altri. In strada ho imparato a usare gli spray, uno strumento che nessuno mi avrebbe mai insegnato; così ho scoperto un nuovo modo di imparare l’arte, attraverso il contatto con la realtà, con il mondo. Un’arte comunque effimera, che quindi non pretendeva neanche di rimanere, ma allora per me era qualcosa di più entusiasmante, da un punto di vista artistico e personale. Nelle sue ultime manifestazioni e tendenze la street art si è probabilmente sganciata dalla subcultura giovanile urbana, appunto, hip hop, break dance, rap, diventando una forma d’arte indipendente, a sé stante. Credi che ciò abbia giovato alla street art? Intanto va detto che non si sa quanto la street art fosse una espressione artistica di rottura agli inizi, quando si andava a dipingere in strada senza nessuna idea da parte dei cittadini di cosa si stesse facendo. Sostanzialmente dovevi avere fegato. Oppure nel mio caso, visto che ho deciso di fare arte figurativa - perché quello era il mio background - il gap era: faccio un’arte classica in un luogo dove le persone portano i cani a spasso? Era questo il gap: la scelta dei luoghi che la città lascia abbandonati. Oggi, per i bambini, gli adolescenti - me ne rendo conto con mio nipote - è normale che ci siano dei disegni sui muri. Perché? Cos’è successo?

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