Viene presentato il 6 settembre alle Notti Veneziane, sezione collaterale delle Giornate degli Autori, in collaborazione con Isola Edipo, Vakhim di Francesca Pirani. Prodotto da Luca Criscenti per Land Comunicazioni, in collaborazione con Valeria Adilardi, il documentario con musiche di Tony Carnevale, è stato anche tra i 20 progetti selezionati (tra i 150 candidati) a partecipare al Pitching Forum, nell’ambito dell’undicesima edizione di Bio to B – Industry Days 2024, che si è tenuto a Bologna lo scorso giugno.
Abbiamo incontrato, per l’occasione, la regista, e le abbiamo chiesto di raccontarci la nascita e lo sviluppo di questo progetto che parte da lontano, dalla prima immagine di Vakhim, «un bambino dalla maglietta gialla stretto al collo di uno dei ragazzi più grandi dell’Istituto dei bambini poveri di Phnon Penh» in Cambogia. Era novembre 2008, e Vakhim aveva quattro anni.
Francesca, come nasce l’idea del film?
Il film nasce dalla straordinaria quantità di girato a disposizione, e dalle richieste di amici e di addetti ai lavori che, conoscendo il materiale e la storia di Vakhim, mi hanno sollecitata a farne un film. Il girato, la cui finalità non era quella di realizzare un film su mio figlio – tra l’altro non nasco documentarista -, ha rappresentato sia la possibilità di comporre una memoria dei momenti più importanti della vita di Vakhim, sia l’esigenza che restasse una traccia della sua lingua madre, ossia lo khmer, che sapevo sarebbe svanita nel giro di pochi mesi. A differenza delle emozioni fortissime dei primi mesi, dei primi anni di vita che, invece, permangono. L’amore di Vakhim per la madre, il proprio nome legato al suono della sua voce, a lei che per prima glielo ha sussurrato, fondendolo per sempre alle prime carezze, al primo latte. Salvare una parte della storia di Vakhim è stato essenziale, e ritrovare i suoi fratelli ha significato anche impedire che tutto fosse perduto, che la propria memoria – e con essa i suoi affetti -, potesse essere distrutta. Mi piaceva anche l’idea che, da grande, mio figlio avrebbe potuto fare una ricerca sulla sua storia attraverso quelle immagini e quella lingua.
Qual è stato il fattore determinante che ha sollecitato l’atto creativo, la scrittura, e che ti ha permesso di trasformare il vissuto in racconto cinematografico?
Una ulteriore spinta alla realizzazione del film è arrivata da un’amica scrittrice e sceneggiatrice, Silvia Cossu, che mi esortava a partecipare al Premio Solinas: era il 2019 e io mi stavo occupando di tutt’altro, stavo scrivendo dei testi per il teatro. Poi, di getto, a maggio 2019, ho scritto la storia di quello che sarebbe poi diventato il film e, incredibilmente, mi hanno selezionata per la sezione documentari. A settembre di quello stesso anno, a La Maddalena, ero tra i cinque finalisti. Il progetto non vinse, di fatto non era ancora del tutto delineata la fase di un processo compiuto che andasse oltre l’idea che avevo candidato al Premio. Ma è iniziato tutto da lì. In seguito, durante il periodo del lockdown, ho scritto la sceneggiatura, cercando di pensare, di comporre, non senza difficoltà, il seguito di questa storia.
Cosa ti premeva raccontare, in particolare, di questa storia?
Cosa mi premeva raccontare era abbastanza chiaro, fin dall’inizio, e, soprattutto, sapevo cosa non volevo fare. Non volevo realizzare interviste, non volevo raccontare la storia della famiglia e tutto il resto in maniera realistica, anche perché non è un registro che mi appartiene. L’idea era quindi quella di lavorare sulle immagini che avevo, che erano moltissime, e di poterle fondere con nuove riprese. Sono nati, così, dei primi tentativi, realizzati mediante l’utilizzo di alcune immagini di repertorio prese in rete evocative della Cambogia, che ho integrato con il materiale personale che avevo a disposizione, per farlo visionare ai produttori. Questa composizione di immagini aveva la capacità di creare un’emozione, raccontando la storia di Vakhim, i primi mesi in Italia, e al tempo stesso i suoi ricordi. Ho, dunque, cercato di costruire un doppio livello temporale, e di lavorare in una direzione ben precisa che mi permettesse di realizzare un racconto che non sembrasse ricostruito, finto.
In una scena del film, durante il viaggio dalla Cambogia verso l’Italia, la voce narrante, la tua, racconta di questa particolare sensazione che accompagna solitamente il rientro a casa dopo una vacanza estiva. E, invece, per Vakhim era il punto di non ritorno…
Il tema che volevo venisse fuori dal film non era solo la storia privata di Vakhim, ma volevo anche raccontare qualcosa che portasse dietro di sé un’eco un po’ più ampia, ponendo in risalto la questione delle madri cambogiane reclutate per le adozioni e, soprattutto, il tema della separazione. Che cosa accade a un essere umano che perde tutto il suo mondo? Cosa significava, da un giorno all’altro, perdere la propria madre, il proprio villaggio, la propria lingua, i fratelli, e tutti i sapori e gli odori di quei luoghi? È possibile ricominciare da quel ‘punto di non ritorno’? Dopo circa sei, sette mesi, siamo riusciti a ritrovare la sorellina maggiore Maklin, – che viveva a Riccione con un’altra famiglia adottiva -, e al telefono parlavano già l’italiano. Avviene, cioè, una cosa incredibile: se aderisci a questo mondo, sparisce l’altro. Fare della separazione il tema centrale è stato sempre il nucleo fondante la storia, poiché rappresentava il tema più universale. Le persone che arrivano con i barconi e si lasciano alle spalle la loro terra, la loro storia, ma anche le grandi separazioni nelle grandi storie d’amore, i lutti: ogni volta, sembra avvenire qualcosa di irreversibile.
La tematica, fondante, della separazione ha ispirato anche la tua opera prima, L’appartamento?
L’appartamento è un film d’esordio che non nasceva da un mio soggetto e che trattava il tema, allora assolutamente nuovo, dell’immigrazione in Italia. I protagonisti erano un ragazzo egiziano e una ragazza fuggita da Mostar, dagli orrori della guerra. Il taglio del film non era sociale, ma affrontava il tema con uno sguardo rivolto al modo diverso di separarsi dal proprio mondo: il ragazzo, padre di una bambina di pochi mesi, nonostante le difficoltà, era riuscito a conservare un rapporto affettivo con il suo Paese e il suo passato, mentre la giovane bosniaca aveva cancellato tutto dalla propria memoria, diventando depressa e raggelata. Il loro incontro produce una crisi nella ragazza e un’apertura inattesa che prelude alla possibilità di una sua rinascita. Infatti nel finale del film il ragazzo, costretto dagli eventi, affida la propria bambina a quella ragazza appena conosciuta, la quale si trova a farsene carico, ad ‘adottarla’. Mi rendo conto solo adesso che il tema di come si possono affrontare le separazioni è un elemento ricorrente nelle mie storie, e che incredibilmente è passato dal cinema alla realtà della mia vita. Sono trascorsi dieci anni tra quel film e la decisione di adottare un bambino in un Paese lontano e poi ancora altri dieci prima di pensare di raccontare la storia di Vakhim. Tornando al presente posso dire di non aver mai avuto paura del passato di mio figlio, ma l’idea che Vakhim potesse rimanere impigliato fra due mondi mi ha spinta, fin da subito, a cercare di rimanere aperta ai segnali che inviava. E ne inviava tanti, ma avrei potuto ignorarli: il nome che ripeteva, ‘Mali’ rivelatosi poi quello di sua sorella Maklin, i disegni, i sogni, e poi quei momenti in cui accennava la sensazione che gli mancasse ‘qualcosa nella testa’ o la paura che col tempo non avrebbe più saputo riconoscere sua madre.
Cosa ha significato, per te, intrecciare arte e vita?
Ho dedicato a questo progetto tutto il mio tempo, dal momento in cui ho deciso di realizzarlo. Ho visto moltissimi documentari di una scuola di filmmakers fondata dal regista cambogiano Rithy Panh. Sono tantissimi piccoli documentari – le cui storie si svolgono tutte nelle campagne -, realizzati da questi giovani studenti che sono stati poi messi in rete. È stato potente accedere a quel mondo da cui proveniva Vakhim.
All’inizio l’idea del film includeva molte scene di vita, ma poi ho immaginato, in fase di sceneggiatura, anche come poter realizzare delle immagini basate sulle memorie, sui ricordi di Vakhim e di sua sorella Maklin. Tuttavia, rimandavo questo momento perché aveva a che fare sempre con il vissuto. In seguito, dopo varie vicissitudini produttive, per me è stata importante la certezza che non fosse un documentario canonico.
Fin dall’inizio, è stata una grande avventura. Non avevo ancora la piena consapevolezza della compiutezza del progetto che, come diceva la mia amica che mi aveva esortata a candidarlo al Premio Solinas, avevo già dentro. Anche quando siamo in Cambogia e c’è questo piccolo ‘giallo’ sulla ricerca della madre, niente è stato costruito a tavolino, giorno dopo giorno scoprivamo dettagli in più e filmavamo le nostre scoperte.
L’idea è stata quella di raccontare il primo anno insieme, e solo successivamente, dopo l’arrivo delle lettere della madre di Vakhim, che non lo aveva mai dimenticato e chiedeva sue notizie, ho deciso di raccontare quell’evento sopraggiunto proprio alla soglia dell’adolescenza di mio figlio. Poi, cinque anni dopo, la partenza per la Cambogia. Qui, durante le riprese, abbiamo voluto evitare di raccontare il set per non inserire all’interno del racconto un ulteriore piano narrativo, perché ci sembrava un elemento di metalinguaggio che avrebbe raffreddato il tutto. Volevamo rimanere nella storia, nel racconto, senza che nulla divenisse esplicativo o didascalico, ma scoprendo le cose a poco a poco attraverso le immagini e la voce narrante.
Quando è avvenuto il ritorno in Cambogia, dopo il primo incontro con Vakhim, dopo questa prima evocativa immagine di lui, a quattro anni, che apre il film?
Siamo andati in Cambogia con un mio amico e collega, Stefano Viali, per i sopralluoghi e il casting, a febbraio dello scorso anno, quando abbiamo individuato la famiglia di contadini che si è poi prestata a far parte del film per rappresentare alcuni momenti dell’infanzia di Vakhim e i suoi fratelli. Le riprese sono poi state realizzate ad agosto dello stesso anno.
Com’è stata concepita la composizione del film, nel fondere le immagini di archivio con quelle girate in Cambogia?
L’intento è stato quello di introdurre sin da subito questo linguaggio, mescolando le immagini di archivio con quelle ricostruite. Riuscire, così, in qualche modo, a rappresentare le immagini che Vakhim aveva dentro di sé. E poi, andando in Cambogia, è stato possibile ampliare questo linguaggio, raccontare di Vakhim, ma anche di tutti gli altri bambini e bambine che hanno condiviso con lui una medesima storia.
Abbiamo voluto creare un linguaggio in cui si passasse senza soluzione di continuità dal presente al passato, dalla realtà del momento all’incursione di un ricordo. I bambini cambogiani che interpretavano Vakhim e Maklin piccoli giocavano con i veri protagonisti della storia, per poi farsi da parte e lasciare spazio alla rappresentazione. Ad esempio quando viene evocato il ricordo di Maklin del parto di sua madre e della nascita del fratellino, lei entra improvvisamente in campo e alla fine della scena socchiude gli occhi, come a suggerire che le immagini viste siano una sua rievocazione. Non concepite come delle immagini separate, ma come immagini che si nutrono della stessa storia. Vediamo, ad esempio, il ricordo del campo di farfalle, delle sanguisughe, di Vakhim che porta al pascolo la mucca. Tante piccole ricostruzioni che vengono mescolate con il repertorio.
La storia intima, privatissima, di Vakhim e dell’incontro con lui, viene intrecciata anche alla storia internazionale delle adozioni. C’era l’idea che comunque non si potesse tacere questa storia delle adozioni internazionali. Quando cominciano ad arrivare queste lettere da parte della madre – era il 2017 e Vakhim aveva tredici anni -, abbiamo iniziato a scoprire lo scandalo delle adozioni in Cambogia, diventato in poco tempo un caso internazionale. Madri analfabete costrette a sottoscrivere documenti di formalizzazione dell’abbandono dei propri figli, di cui pensavano avrebbero sempre potuto ricevere notizie.
Oltre al livello privato, ce n’è un altro, quello sociale, gravissimo, drammatico, che è il rapporto che lega l’Occidente con i Paesi cosiddetti del Terzo mondo. Una questione che merita anche un ulteriore tipo di approfondimento. Pur non raccontando tutti i particolari di queste storie, l’intento è comunque quello di restituire una verità più profonda del dramma sociale, cosa significa essere strappati alla propria storia.
Quando hai scelto di essere anche la voce narrante del film?
Subito, perché questo mi permetteva di rimanere il più possibile fuori dal campo visivo. La voce narrante è un personaggio del film, rappresenta sia il mio sguardo che la storia di una madre che vive la storia di suo figlio. Per il Premio Solinas la voce narrante era stata pensata in prima persona, rivolta a Vakhim, come fosse una lettera indirizzata a lui. Poi alla fine, con Nicola Moruzzi il montatore del film, che è anche un regista, l’abbiamo ripensata in terza persona, come fosse un diario. E volevamo che non avesse una funzione anticipatrice degli eventi (nella seconda parte del film ciò non sarebbe stato comunque possibile perché vediamo e scopriamo le cose mentre accadono). Tuttavia, anche nella prima parte si è cercato di procedere insieme con lo spettatore in questa scoperta, per porsi nelle condizioni di ripercorrere quei momenti per come te li stavi vivendo lì, e quindi nell’inconsapevolezza. Questo ha permesso di andare fino in fondo alla storia e all’intento che ci si era prefissati.
Quando Vakhim è stato presentato al Premio Solinas, il titolo del progetto era La lingua salvata. Ci racconti perché?
Mi piaceva questo titolo, che è il titolo di un libro di Elias Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza. Allo stesso tempo, mi riecheggiava questa storia della lingua madre, l’idea che nel primo anno di vita ci sia questa fusione tra il linguaggio e lo sviluppo. Poi, durante un incontro casuale a una festa di compleanno, lo psichiatra Massimo Fagioli disse a me e Simone, il mio compagno, dell’importanza che Vakhim, che era arrivato da pochi mesi in Italia, non perdesse la lingua madre. Purtroppo da noi non esiste un’ambasciata cambogiana né vi sono università che insegnano lo khmer.
Tuttavia, questa necessità di non perdere la lingua madre è diventata motivo di ricerca. Come si può non perdere la lingua madre? Come è possibile ‘ricrearla’? Trovare la sorella di Vakhim, farli rincontrare è stato fondamentale per questa ricerca. È stata una vera e propria conquista, anche perché Maklin, essendo la sorella maggiore, ha più ricordi della loro primissima infanzia, ed è sempre stata molto brava a tenere il filo del rapporto. Sono rimasti insieme, nell’Istituto dove la loro madre li aveva portati, per dieci mesi, fino a settembre quando lei è andata via. Il nostro incontro con Vakhim, invece, è avvenuto a dicembre. Oggi, Maklin ha deciso di venire a studiare a Roma, dove vive suo fratello Vakhim, mantenendo saldo e costante questo loro importantissimo rapporto.