“8×5” si leggeva sulle pettorine fluorescenti degli operai scesi in strada domenica 13 ottobre nella zona industriale di Seano, in provincia di Prato.
Quei numeri sono una potente rivendicazione: vogliamo lavorare 8 ore al giorno per 5 giorni a settimana. Perché, per quanto potrà sembrare assurdo, nell’anno 2024 e nel distretto tessile più grande d’Europa, nella civile Toscana, la quotidianità è tutt’altra. La “normalità” delle vite operaie parla di 7 giorni di lavoro su 7, per 12 ore al giorno.
“Sciopero”, gridavano gli operai. Per due motivi: perché quella di domenica 13 ottobre non era semplicemente una manifestazione sindacale, ma un vero e proprio sciopero, perché nel distretto tessile pratese Dio evidentemente il settimo giorno non si riposò e quindi la domenica non è giorno di festa; e perché questi lavoratori sanno bene che lo sciopero rimane una preziosa arma a loro disposizione per cambiare in meglio le loro vite.
Scioperi erano stati convocati a partire da domenica 6 ottobre in diverse aziende del distretto.
Le imprese sono dimensionalmente piccole. Quanto meno in termini di addetti: ognuna di loro conta una decina di operai o anche meno. Dagli stessi nomi si capisce che i proprietari, oltre agli italiani, sono per lo più cinesi: confezione Lin Weidong, fabbrica di taglio Ly Zhong Zipper, tessitura Sofia, stireria Tang e logistica 3 Desy.
I dipendenti, invece, soprattutto pakistani. Aziende piccole, forza lavoro straniera. Ricattabile, quindi, perché la sua stessa permanenza in Italia è vincolata all’esistenza di un contratto di lavoro, grazie alla legge Bossi-Fini, introdotta il 30 luglio 2002 e mai eliminata, nemmeno dai governi che si auto-definiscono “progressisti”.
Solitamente due condizioni che vengono considerate impossibili per la penetrazione del sindacato. Non stavolta. Lo sciopero, infatti, ha avuto un enorme successo: il Sudd (Sindacato unione democrazia dignità) Cobas, grazie alla settimana di sciopero diffuso, in 5 aziende è riuscito a siglare accordi che garantiranno il lavoro su 5 giorni a settimana per 8 ore al giorno.
Quaranta ore settimanali contro le ottantaquattro lavorate oggi.
Firmato l’accordo anche alla Confezioni Lin Weidong di Seano. Ai suoi cancelli, nella notte di martedì 8 ottobre, gli operai in picchetto sono stati assaltati a colpi di spranghe di ferro da una squadraccia composta di italiani e che, secondo il Sudd Cobas, sarebbe stata assoldata dai proprietari dell’impresa. Gli operai in picchetto si sono difesi, ma in quattro sono stati costretti a correre in ospedale per le ferite riportate.
“La prossima volta vi spariamo”, avrebbero urlato gli assalitori fuggendo via dal picchetto. (c’è una inchiesta aperta sia per sfruttamento che per l’aggressione Ndr).
Se c’è chi sta pensando che queste aggressioni agli operai in sciopero sono roba da “squadracce fasciste” di inizio XX secolo, ha ragione e torto allo stesso tempo. Ha torto perché, purtroppo, è una pratica tutt’ora in voga. L’assalto ai lavoratori ai cancelli della Confezioni di Lin Weidong, infatti, non è il primo. Dal 2018 il Sudd Cobas ha registrato almeno 28 lavoratori, iscritti o simpatizzanti aggrediti ai picchetti operai o sulla via di casa. Le armi usate variano da spranghe, mazze, tirapugni.
Come quelli usati nell’ottobre 2021 ai cancelli della Dreamland, azienda di pronto moda di Prato. Anche in quell’occasione furono 4 i lavoratori costretti alle cure ospedaliere. Tutto era partito dalla denuncia di un lavoratore, contrattualizzato per 3 ore al giorno per 5 giorni a settimana, malgrado ne lavorasse 12 al giorno per 7 giorni a settimana. Aveva chiesto all’imprenditore una parziale regolarizzazione del suo contratto, passando a 6 ore al giorno, così da poter ottenere il ricongiungimento familiare e l’arrivo in Italia della moglie. Di fronte al rifiuto, denunciò tutto all’Ispettorato nazionale del lavoro. In seguito all’ispezione di quello che è il principale organo preposto alla verifica delle condizioni di lavoro e sicurezza sui posti di lavoro, tutte le aziende del territorio risultarono irregolari. Cambio di scena? Null’affatto. Perché pagate le multe – spesso irrisorie – riprese esattamente lo stesso sistema di sfruttamento.
Solo l’arrivo del sindacato, l’indizione di scioperi e picchetti permisero di creare le condizioni per un miglioramento materiale delle condizioni lavorative. A costo, però, anche dell’aggressione della squadraccia: “Il padrone con altre dieci persone sono arrivati e usciti dalle macchine con mazze, tirapugni e spranghe di ferro e hanno aggredito il picchetto dei lavoratori. Ci sono 4 nostri compagni all’ospedale, molti di noi hanno traumi, lividi e altri danni di varia natura”, denunciò il sindacato di base SI Cobas.
Storia simile a quella già accaduta a giugno 2021. Alla stamperia tessile Texprint, il picchetto operaio che protestava da ben 4 mesi contro i licenziamenti comminati per aver denunciato lo sfruttamento che si subiva in fabbrica, fu assaltato addirittura a colpi di mattone da un gruppo di uomini, tra cui anche un proprietario secondo il sindacato, che devastarono anche il picchetto.
Una simile violenza padronale si è registrata in questi anni anche nel settore della logistica. Squadracce, spranghe e tirapugni, purtroppo, sono tutt’altro che storia passata. Questa permanenza, allo stesso tempo, rivela come la violenza fisica sia un’arma cui tutt’oggi diversi imprenditori ricorrono nel tentativo di spezzare le lotte e l’organizzazione operaia.
È qui che chi va con la mente alle “camicie nere” di mussoliniana memoria ha ragione. Quella contro i picchetti non è l’unica violenza contro gli operai – del tessile e non – in sciopero. In questi anni, infatti, l’ordinamento italiano ha permesso alle istituzioni di comminare fogli di via a sindacalisti e solidali, nel tentativo di render loro impossibile l’accesso alle zone del conflitto operaio.
Questo strumento, come denuncia Amnesty International, «negli ultimi tempi viene utilizzato sempre più frequentemente per colpire attivisti per la giustizia climatica, sindacalisti, lavoratori in protesta o persone che hanno semplicemente espresso il proprio dissenso». Colpendo la libertà di movimento, garantita dalla Costituzione, ed esercitando un effetto deterrente, «consistente in un effetto intimidatorio che rischia di generare timore e scoraggiamento, dissuadendo così le persone dal protestare».
Luca Toscano, rappresentante del Sudd Cobas, il principale sindacato che organizza gli operai del distretto tessile di Prato, nell’aprile 2023 era stato colpito proprio da un foglio di via, che gli impediva l’accesso nel Comune di Campi Bisenzio (Firenze), perché “colpevole” di un volantinaggio dinanzi a un negozio della catena Liu-Jo presso il centro commerciale “I Gigli”.
Il diritto allo sciopero, allo stesso tempo, viene sempre più criminalizzato – in primis dal potere mediatico, tanto quello dell’ultradestra quanto quello “progressista” – e svuotato.
«Se si criminalizza lo sciopero e il picchetto con leggi e fogli di via», ha affermato in piazza il 13 ottobre Luca Toscano del Sudd Cobas, «è inutile stupirsi che su questi picchetti qualcuno utilizzi lo squadrismo come difesa».
Nella rassegna degli strumenti anti-sciopero e anti-picchetto, per ultimo arriva il Ddl 1660 predisposto dal governo Meloni e ora in discussione in Senato. La norma si appresta a trasformare in reato penale punibile con 2 anni di carcere il blocco stradale, ovvero una delle forme tipiche del conflitto operaio. Come ha ammesso candidamente il ministro degli Interni Piantedosi il 25 settembre alla Camera dei Deputati, la norma serve per provare a fermare le proteste in particolare nel settore della logistica, con i suoi 240 scioperi nel 2024 e «scongiurare gli episodi di compromissione dei diritti delle imprese e dei lavoratori».
Tradotto: il governo Meloni vuole tutelare il diritto al profitto delle imprese e, in quest’ottica, trasforma in reato una delle forme tipiche del conflitto operaio, comprimendo il diritto alla protesta di lavoratori e lavoratrici. Assalti ai picchetti; repressione preventiva (fogli di via); criminalizzazione mediatica; attacco/svuotamento delle principali armi a disposizione del movimento dei lavoratori; e nuove norme per “punire” chi protesta: sono i tasselli di cui si compone una strategia richiesta a gran voce dal potere economico e assecondata da quello politico. Una strategia, però, che racconta anche un’altra storia. Quella, cioè, che ci porta a individuare nel movimento dei lavoratori una forza capace di incutere timore nella controparte. Perché è proprio dalla paura di settori imprenditoriali, dalla consapevolezza di dover stroncare il “nemico”, che viene fuori.
Il movimento dei lavoratori del distretto tessile di Prato – come quello dei magazzini della logistica – dimostra infatti di non essere mera “vittima” delle trasformazioni in atto, bensì “forza” potenzialmente capace di strappare vittorie significative, tanto in termini di condizioni materiali quanto di “riconoscimento” di sé, in qualità di soggetto individuale e collettivo. A ben guardare, non sono conflitti cui guardare con le lenti di un passato vecchio un secolo, ma con occhiali che consentano di individuare tendenze che già si disegnano in territori dei nostri Paesi spesso invisibili agli occhi della maggioranza, tanto a causa dell’oscuramento del potere mediatico quanto della ghettizzazione di determinati spazi geografici e gruppi sociali.
“8×5” e “sciopero”, in apparenza paradossalmente, interpretano la modernità meglio di tanti slogan cervellotici sentiti in questi anni.
Questo articolo di Giuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias
Nella foto: StrikeDay a Prato, 13 ottobre (da facebook Sudd Cobas)