Ad agosto 2023 Giorgia Meloni, la presidente del Consiglio italiano, trascorre le vacanze in Albania, ospite del presidente Edi Rama, membro “associato” della famiglia del Partito socialista europeo, di cui sono parte anche il Pd di Elly Schlein e il Psoe di Pedro Sánchez.
Galeotta fu la vacanza. È lì, infatti, che si gettano le basi per raggiungere un accordo che sarà poi siglato il 6 novembre 2023.
Meloni e Rama firmano un protocollo che prevede la costruzione a Gjader e Shengjin, nel Nord dell’Albania al confine con il Montenegro, di centri a giurisdizione italiana in cui deportare i migranti dall’Italia.
A Gjader il progetto prevede la costruzione di un centro per il trattenimento dei richiedenti asilo da 880 posti, di un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) da 144 posti e di una prigione da 20 posti.
Costo stimato: almeno 670 milioni di euro in cinque anni. Pagati con i proventi delle tasse dei lavoratori e delle lavoratrici italiane.
A un anno di distanza, in occasione del traguardo dei due anni di governo, Giorgia Meloni può vantare di aver trasformato quel protocollo in realtà (sebbene con sei mesi di ritardo sulla tabella di marcia) e, soprattutto, di aver individuato «una nuova rotta rispetto alle politiche sull’immigrazione» (Il Tempo, 22 ottobre 2024).
I due centri sono stati aperti martedì 15 ottobre 2024.
A “inaugurarli”, un “carico residuale” – così li definì il Ministro degli Interni Piantedosi il 5 novembre 2022 durante una conferenza stampa presso la Prefettura di Milano – di 16 migranti.
Trasportati dalla nave Libra, pattugliatore della Marina militare italiana, dopo due giorni di navigazione arrivano in Albania. Sei provengono dall’Egitto, dieci dal Bangladesh. Tutti maschi, come da accordi tra Roma e Tirana (migranti maschi, non vulnerabili, provenienti da Paesi sicuri); soccorsi al largo di Lampedusa mentre erano a bordo di due imbarcazioni di fortuna salpate da Sabratha e Zuara, entrambe in Libia.
Costo stimato della traversata per l’Albania: tra i 250mila e i 290mila euro, circa 18mila euro a migrante. Una bella spesa per chi da anni lamenta che l’Italia “spreca” troppi soldi per il salvataggio e l’accoglienza delle persone migranti.
Per un’operazione che sa di “spot elettorale”. La pubblicità è l’anima del commercio ma, evidentemente, anche della politica.
Ad accogliere la Libra al porto di Shengjin ci sono anche attivisti che denunciano l’accordo tra Italia e Albania: “The European dream ends here”, si legge sullo striscione, mentre su uno stendardo sono ritratti Edi Rama e Giorgia Meloni vestiti da guardie carcerarie. «La crisi dei migranti non è una crisi che si risolve a scapito di altri popoli», spiegano alla stampa presente.
La contestazione è solo il primo degli intoppi che emergeranno in rapida successione.
Nemmeno il tempo di sbarcare e dei sedici migranti ben quattro devono fare immediato rientro in Italia: due, infatti, risultano minorenni e altri due presentano problemi di salute.
Il vero colpo, però, il governo Meloni lo riceve venerdì 18 ottobre: il Tribunale di Roma decide di non convalidare il trattenimento dei 16, perché provenienti da Paesi considerati “non sicuri”, vale a dire Egitto e Bangladesh. Per produrre la decisione, applica una sentenza del 4 ottobre 2024 con cui la Corte di giustizia europea stabilisce che per essere considerato “sicuro” un Paese dev’esserlo in tutto il suo territorio e per tutte le persone che ci vivono. Criteri che il Tribunale di Roma non ha riscontrato né per il Bangladesh né per l’Egitto – dal quale, tra l’altro, l’Italia attende ancora sia fatta luce e giustizia per l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, presumibilmente assassinato dagli apparati di sicurezza del Cairo nel 2016.
Di più: secondo la Corte di giustizia europea, che un Paese sia sicuro dev’essere verificato dal giudice per ogni specifica situazione, non potendo esser considerata sufficiente la compilazione di una lista di Paesi sicuri da parte di uno Stato.
La reazione di Meloni & Co. è furibonda e si dispiega tanto nel campo discorsivo quanto in quello normativo.
Fratelli d’Italia, il partito della presidente del Consiglio, pubblica su X un post indignato. «Assurdo! Il tribunale non convalida il trattenimento dei migranti in Albania. In aiuto della sinistra parlamentare arriva quella giudiziaria» – si legge sulla grafica, accompagnata da un testo ancor più duro: «Alcuni magistrati politicizzati hanno deciso che non esistono Paesi sicuri di provenienza: impossibile trattenere chi entra illegalmente, vietato rimpatriare i clandestini. Vorrebbero abolire i confini dell’Italia, non lo permetteremo».
Salvini, impegnato quello stesso venerdì 18 nel processo di Palermo in cui rischia fino a 6 anni di carcere per aver sequestrato i 147 migranti a bordo della Open Arms quand’era ministro degli Interni, ai tempi del governo M5s-Lega, non è da meno e scrive: «Se diciamo che non possiamo espellere nessuno, se qualcuno di questi dodici clandestini portati in Albania domani commettesse un reato, rapinasse, stuprasse, uccidesse qualcuno, chi ne paga le conseguenze? Il magistrato che li ha riportati in Italia?».
Il potere mediatico dell’ultradestra è perfettamente allineato. Sabato 19 ottobre le prime pagine dei quotidiani nelle mani del parlamentare leghista e grande ras della sanità privata Angelucci suonano la carica: “Il blitz di giudici e sinistra. L’Italia riaperta ai clandestini” (Il Giornale); “Il golpe giudiziario. I giudici aboliscono i confini” (Libero).
In Tv il copione è lo stesso. Non solo sulle reti Mediaset della famiglia Berlusconi, dove lunedì 21 ottobre viene trasmessa un’intervista a Salvini nel talk show di prima serata Quarta Repubblica. Anche sulla Tv pubblica, in Rai. Sabato 19 ottobre, infatti, il Tg1, il principale telegiornale del Paese, lascia ampio spazio a un’intervista al vice-premier e capo della Lega che può affermare, senza contraddittorio, che «una piccola parte dei magistrati in Italia fa politica, usa il tribunale come un centro sociale».
L’ultradestra di Meloni e Salvini, insomma, sembra impegnata in una nuova crociata contro i giudici, accusati di essere “toghe rosse”, come ai tempi del berlusconismo.
In un’intervista a Repubblica, il presidente del Senato La Russa, che si vanta dei busti di Mussolini che custodisce a casa, avanza la necessità di cambiare la Costituzione per avere «maggiore chiarezza nel rapporto tra politica e magistratura».
Nel mirino, dunque, lo stesso equilibrio tra i poteri.
In campo normativo, Meloni & Co. conducono una battaglia lampo. Il Consiglio dei ministri riunito lunedì 21 ottobre predispone un disegno legislativo che contiene la lista di ben 19 Paesi “sicuri”: Albania, Capo Verde, Bangladesh, Costa d’Avorio, Algeria, Bosnia-Herzegovina, Egitto, Perù, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Senegal, Montenegro, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.
Spariscono tre Paesi prima presenti (Camerun, Colombia e Nigeria). La lista sarà aggiornata annualmente, secondo quanto riferito dal Sottosegretario Mantovano (Il 29 ottobre il Tribunale di Bologna ha rinviato alla Corte di Giustizia europea il decreto del governo sui Paesi sicuri Ndr).
Il governo Meloni agisce così direttamente sul piano della legge. La ratio emerge dalle parole del ministro della Giustizia Nordio: «nel momento in cui un elenco di Paesi sicuri viene inserito in una legge, il giudice non può disapplicare la legge».
Il tutto in attesa che nel 2026 entri in vigore il Patto per la migrazione, firmato ad aprile 2024, che sostituirà la direttiva del 2013 su cui oggi si fonda la definizione di Paese sicuro. Con il nuovo Regolamento per la procedura d’asilo, si allargheranno le maglie di ciò che è considerato “sicuro”: «La designazione di un Paese terzo come Paese d’origine sicuro a livello sia dell’Ue che nazionale può essere effettuata con eccezioni per determinate parti del suo territorio o categorie di persone chiaramente identificabili». In sintesi, le sentenze della Corte di giustizia europea del 4 ottobre e quello del Tribunale di Roma del 18 ottobre non potrebbero più sussistere.
Sbaglieremmo a inquadrare l’accordo Italia-Albania e i suoi successivi risvolti semplicemente come una storia italiana. Non solo perché il quadro normativo è quello europeo.
Ma perché è davvero il terreno di sperimentazione di nuove politiche contro i migranti.
In prima fila Ursula Von der Leyen. La presidentessa della Commissione Europea, in vista del Consiglio Europeo del 17 e 18 ottobre 2024, invia una lettera in cui ribadisce che: «Dovremmo anche continuare a esplorare possibili strade da percorrere riguardo all’idea di sviluppare centri di rimpatrio al di fuori dell’Unione Europea, soprattutto in vista di una nuova proposta legislativa sui rimpatri. Con l’avvio delle operazioni previste dal protocollo Italia-Albania, saremo anche in grado di trarre lezioni pratiche».
Il vertice delle istituzioni europee legittima il patto Italia-Albania e considera il governo Meloni la necessaria nave rompighiaccio che possa aprire la strada ad altre imbarcazioni.
L’ultradestra europea è subito in coda.
Geert Wilders, leader del PVV olandese, vincitore delle ultime elezioni e oggi al governo: «L’Italia sta mandando persone in Albania: per noi è un buon modello, un buon esempio. In Olanda stiamo pensando di fare una cosa simile in Uganda».
L’ungherese Viktor Orban usa lo stesso concetto: «L’hub per in migranti in Albania è un buon modello, congratulazioni».
Ma non sono solo i “Patrioti per l’Europa” a essere entusiasti.
Si sommano alcuni importanti membri del Partito popolare europeo. A partire da quel governo austriaco che parla addirittura di un’Italia che “mostra come innovare”. Spiegando: «raccoglie il consenso del Ppe […]. Mi sembra che sia una iniziativa innovativa, che viene seguita con grande interesse».
Sorprendentemente per chi continua a considerarli alternativa alle destre, l’accordo Italia-Albania piace anche ad alcuni socialdemocratici.
La premier danese Mette Frederiksen ha chiesto «nuove soluzioni», sostenendo che «potrebbe essere la cooperazione che esiste ora tra Italia e Albania».
Il laburista britannico Starmer, arrivato a settembre in visita a Roma, dopo aver elogiato il Governo Meloni per i «progressi notevoli» in tema di migranti irregolari, aveva affermato di seguire il protocollo «con molta attenzione».
E se oggi il premier tedesco Olaf Scholz si mostra tiepido («concetti che possono assorbire pochissime piccole gocce, se si guardano i numeri, non sono realmente la soluzione per un Paese grande come la Germania»), è pur vero che fino non troppo tempo fa aveva aperto più di una porta al modello italiano.
Il terreno della “questione migranti” è il principale terreno su cui si dispiega l’egemonia dell’ultradestra, capace di trascinare a sé non solo le destre tradizionali, ma sempre più ampi settori della tradizionale socialdemocrazia e anche di pezzi di vecchia e nuova sinistra.
Si tratta di una delle più pesanti disfatte ideologiche dei “progressisti”, che hanno fatto propria buona parte dell’armamentario ideologico di Orban, Meloni, Le Pen, Abascal: dalla cornice “sicurezza” sotto cui inquadrare il tema migranti, passando per la sacra difesa dei confini, arrivando alla politica di esternalizzazione delle frontiere. Fino a poco tempo fa pronunciata da pochi solo sottovoce, oggi diventa politica ufficiale di uno dei principali governi europei ed esempio per tutto il resto dell’Unione.
Inseguire l’ultradestra non permette una vittoria, come pure suggerivano e continuano a suggerire famosi spin doctor. L’effetto che si produce è il disarmo ideologico, premessa di ogni sconfitta.
Non basta, allo stesso tempo, rimanere su posizioni di mera difesa dei diritti umani.
La questione non è trattare i migranti come esseri umani (anche se per nulla scontato con personaggi come Salvini che, di fronte a un ragazzo maliano ucciso da un poliziotto che stava aggredendo, arriva a scrivere «non ci mancherà», ma smetterla di considerarli “altro da sé” e trovare le forme, culturali e materiali, di costruzione comune di un progetto di trasformazione fondato su quel soggetto collettivo già oggi composto da autoctoni e migranti.
Questo articolo di Giuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias
In foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il ministro dell’Interno Piantedosi e il presidente Edi Rama, Gjader, 5 giugno 2024