A colloquio con la regista che, con Sebastien Laudenbach, ha innovato il modo in cui si fa animazione, con un film speciale, dedicato ai più piccoli, ma non solo

Linda vuole il pollo con i peperoni. Un piccolo desiderio attorno al quale nasce una storia universale sulla forza propulsiva dell’errore, la ricerca della memoria, il valore dello stare assieme, la vita come caos creativo in perenne evoluzione. “Linda e il pollo” è una produzione italo-francese, un film per bambini che parla a tutti, con serietà e leggerezza, lontano dagli stereotipi. Ha ottenuto il Cristal al Festival di Annecy, una candidatura agli EFA, il César 2024 come Miglior Film d’Animazione e il premio per la miglior sceneggiatura al Torino Film Festival. La regista, Chiara Malta, romana che vive e lavora soprattutto a Parigi, ama esplorare tecniche e generi diversi, spaziando dall’animazione al live action. Tra gli altri, ha diretto il documentario “Armando e la politica”, il film “Simple women” con Elina Löwensohn e Jasmine Trinca, la serie “Antonia” con Chiara Martegiani e Valerio Mastandrea. “Linda e il pollo” è il suo primo lungometraggio in animazione.

Paulette punisce ingiustamente sua figlia Linda. Per rimediare, vuole esaudire un suo grande desiderio: mangiare il pollo con i peperoni come lo cucinava il papà, scomparso anni prima. Il pollo però è introvabile per via di uno sciopero generale, e mamma e figlia si imbarcano in una rocambolesca avventura. Com’è nata questa storia?

Le storie sono come ricette di cucina: apri il frigorifero e vedi cosa c’è dentro. Innanzitutto, avevo il desiderio di valorizzare i bambini. Molti film per l’infanzia li rimpiccioliscono a fronte di adulti performanti e poco credibili, oppure li spediscono in mondi paralleli e fantastici, come se non gli si riconoscesse piena legittimità nel mondo reale. Non amo questo genere di film, né quelli cosiddetti “per famiglie”, che strizzano l’occhio ai genitori. Piuttosto, all’epoca dell’ideazione di “Linda e il pollo” mi ero appassionata ai lungometraggi per bambini dell’Europa dell’est, negli anni del blocco sovietico. Erano le produzioni più interessanti perché attraverso le metafore i registi potevano esprimersi, eludendo la censura che colpiva altri generi. Sicuramente il desiderio di riscattare i bambini ha a che fare con la mia storia, così come il tono tragicomico di “Linda e il pollo” viene dalla famiglia in cui sono cresciuta, è il tono di casa mia. Un altro riferimento importante è stato Bruno Munari, in particolare il suo libro “Fantasia”. Tutta l’ideologia del film attinge ai suoi insegnamenti: rompere le regole precostituite, lasciare spazio alla fantasia, fare che soffi un vento di libertà.

Cosa significa tutto ciò applicato a “Linda e il pollo”?

Con Sebastien Laudenbach, che si è occupato della direzione dell’animazione, e col quale collaboro da anni, volevamo innovare il modo in cui si fa animazione. A me pare che lungometraggi d’animazione siano più ingessati rispetto a quelli dal vivo, perché la sceneggiatura non viene messa alla prova con attori in carne e ossa. Per valutare una scena animata prima di realizzarla, si usano gli animatic, immagini statiche montate in sequenza con un audio provvisorio. La voce di solito è quella del regista, quindi gli animatori costruiscono l’animazione definitiva basandosi su animatic con suoni asettici. Non applicando questi passaggi, Sebastien e io abbiamo attraversato fasi di puro caos, finché non abbiamo trovato un nostro metodo. Abbiamo riunito sui luoghi del film attori come Lætitia Dosch, Esteban e Clotilde Hesme, e una marea di bambini. Abbiamo creato un set sonoro, in cui attori e bambini hanno improvvisato sulla sceneggiatura. Partendo da queste suggestioni sonore, gli animatori hanno creato ognuno intere sequenze. Volevamo che dimenticassero quasi la figura, concentrandosi sull’espressività e sul movimento, sviluppando un loro stile, anche a costo di disegni meno perfetti.


Nel film, la narrazione procede per incidenti, in un travolgente effetto domino.

“Linda e il pollo” è un inno al caos creativo. L’incidente va accolto perché è un’occasione che porta crescita e trasformazione. L’ingiustizia, la spinta a rimediare, la determinazione nella ricerca, la memoria che riaffiora, tutto è in evoluzione. Il film nasce continuamente sotto l’occhio dello spettatore, narrazione e disegno sono sempre in movimento, e procedono di pari passo fino alla pacificazione finale, che è una grande apertura: il film parte con pochissimi personaggi e si conclude con una folla gioiosa. È così che va nella vita: quando torna la calma dopo la tempesta, ci ritroviamo cresciuti, abbiamo imparato qualcosa e siamo pronti ad aprirci al nuovo.


Durante la ricerca del pollo, si ribaltano i piani tra adulti e bambini. Paulette, per esempio, fa cose che non possiamo definire “adulte”.

Ci interessava proprio quella zona porosa in cui il confine tra età adulta e infanzia non è netto. Abbiamo reso più grandi i bambini e più piccoli gli adulti, mostrandone le debolezze, anche se sempre con leggerezza e indulgenza. Pur di procurarsi il pollo, Paulette arriva a rubare. Gli adulti della nostra storia hanno timori, sono goffi, commettono errori, dicono bugie. Quello che vogliamo dire è che ai bambini possiamo mostrarci per come siamo. Non solo, possiamo parlare del mondo reale e del tempo in cui viviamo. Le favole vanno benissimo, ma vanno altrettanto bene le storie che partono dai fatti dei nostri giorni. Per esempio, lo sciopero, evento frequente in Francia, rappresenta un momento di blocco, oltre il quale la vita deve riprendere a scorrere, è una spinta a rimettersi in cammino, collettivamente.

Il film usa la monocromia, ad ogni personaggio è associato un solo colore. Come mai questa scelta?

La monocromia è più sostenibile dal punto di vista economico e libera il disegno, bastano tre linee per ottenere il movimento. Il giallo per Linda probabilmente ci è venuto dagli impermeabili che usano i bambini in Bretagna; Paulette, essendo la mamma, è nella stessa gamma di colore, quindi arancione; la zia Astrid, che è un po’ rigida, è ironicamente rosa, a suggerire una dolcezza nascosta; Serge, il poliziotto alle prime armi, è blu perché in Francia quando sei inesperto si dice che sei “bleu”. Il papà e il pollo sono rossi perché sono personaggi palpitanti. Nel finale si ritrovano tutti in piazza e sono come bolle di colore o coriandoli di carnevale, l’effetto è molto bello, è una grande sommossa gioiosa.

Perché, in linea generale, le animazioni francesi sono più curate, poetiche e innovative di quelle italiane?

In Francia il rapporto con l’animazione è più serio che in Italia, dove non sembra che l’animazione sia considerata una forma d’arte, né vero cinema. In Francia è un’industria, si investe e c’è un ritorno economico, mentre in Italia l’arte spaventa, viene trattata come una forma extraparlamentare e non ufficiale, roba da saltimbanchi. Di conseguenza, i finanziamenti sono pressoché inesistenti. Forse è una forma di autodifesa, è paura della rivolta.

l’autrice:

foto i Obelias96 – YouTube, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=10065220