Non sempre abbiamo le parole per dire tutto, ma i sentimenti esistono anche senza di loro. Per questo dovremmo sceglierle con cura, oppure farne a meno. Come le piante.
Ho conosciuto Han Kang a un convegno organizzato dal dipartimento di Studi Orientali della Sapienza di Roma nel dicembre del 2014. Era un convegno internazionale, ed erano invitati scrittrici e scrittori coreani e italiani. Han Kang mi colpì soprattutto per la sua disarmata timidezza - era completamente immune dalla pienezza di sé - e al tempo stesso per la forza e la sincerità di ciò che diceva: «In un certo senso, scrivere narrativa può essere paragonato al camminare avanti e indietro. Si va avanti e poi si torna indietro, riflettendo su domande che scottano e raggelano. A volte si torna al punto di partenza. Alla fine, non si è in grado di guardare al proprio viaggio se non quando è passato molto tempo». Poco prima ci aveva rivolto una domanda urticante, che aveva continuato a lungo a risuonare nell’aria e nella mia coscienza: «È davvero possibile per gli esseri umani vivere una vita innocente in questo mondo? Che cosa succederebbe se qualcuno sognasse di essere completamente innocente e cercasse di realizzarlo nella propria vita? Se distruggesse sé stesso per evitare di fare del male a qualcun altro e paradossalmente distruggesse altre persone in questo processo?». Da allora non ho più smesso di leggerla. L’inermità assoluta come protesta scandalosa contro l’ingiustizia del mondo e la nostra relazione con il linguaggio sono due dei grandi temi che ricorrono nei suoi romanzi. Nata a Gwangju nell’inverno del 1970, e figlia di «un giovane e povero scrittore», l’unica cosa che abbondava a casa sua erano i libri. Riempivano tutto lo spazio, «come se fossero mobili, come le acque di un’alluvione». L’essere involontariamente sfuggiti alla sanguinosa repressione di una rivolta popolare ordinata dal dittatore Chun Doo-hwan nel maggio 1980, lasciò nella sua famiglia, trasferitasi a Seoul da soli quattro mesi, «un senso di colpa profondo e duraturo». Tre anni più tardi, il padre tornò a Gwangju per un viaggio e vi acquistò un album di foto con la macabra documentazione fotografica del massacro che vi era avvenuto e delle tante persone uccise. «Rimanemmo tutti in silenzio fino all’ora di andare a letto, quella sera». All’epoca Han Kang aveva soltanto 13 anni, ma sfogliare per la prima volta quell’album le suscitò delle domande che non l’abbandoneranno più: che cosa sono gli esseri umani? Qual è la natura del potere? Anni dopo, racconterà quella carneficina nel romanzo Atti umani.
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