La protesta contro l’ingiustizia del mondo, la separazione dalle persone amate, il rifiuto silenzioso da parte delle donne sono alcuni dei temi che ricorrono nell’opera della scrittrice coreana, Nobel per la letteratura 2024, autrice di romanzi editi da Adelphi come "La vegetariana" e "Non dico addio"

Non sempre abbiamo le parole per dire tutto, ma i sentimenti esistono anche senza di loro. Per questo dovremmo sceglierle con cura, oppure farne a meno. Come le piante.

Ho conosciuto Han Kang a un convegno organizzato dal dipartimento di Studi Orientali della Sapienza di Roma nel dicembre del 2014. Era un convegno internazionale, ed erano invitati scrittrici e scrittori coreani e italiani. Han Kang mi colpì soprattutto per la sua disarmata timidezza - era completamente immune dalla pienezza di sé - e al tempo stesso per la forza e la sincerità di ciò che diceva: «In un certo senso, scrivere narrativa può essere paragonato al camminare avanti e indietro. Si va avanti e poi si torna indietro, riflettendo su domande che scottano e raggelano. A volte si torna al punto di partenza. Alla fine, non si è in grado di guardare al proprio viaggio se non quando è passato molto tempo». Poco prima ci aveva rivolto una domanda urticante, che aveva continuato a lungo a risuonare nell’aria e nella mia coscienza: «È davvero possibile per gli esseri umani vivere una vita innocente in questo mondo? Che cosa succederebbe se qualcuno sognasse di essere completamente innocente e cercasse di realizzarlo nella propria vita? Se distruggesse sé stesso per evitare di fare del male a qualcun altro e paradossalmente distruggesse altre persone in questo processo?». Da allora non ho più smesso di leggerla. L’inermità assoluta come protesta scandalosa contro l’ingiustizia del mondo e la nostra relazione con il linguaggio sono due dei grandi temi che ricorrono nei suoi romanzi. Nata a Gwangju nell’inverno del 1970, e figlia di «un giovane e povero scrittore», l’unica cosa che abbondava a casa sua erano i libri. Riempivano tutto lo spazio, «come se fossero mobili, come le acque di un’alluvione». L’essere involontariamente sfuggiti alla sanguinosa repressione di una rivolta popolare ordinata dal dittatore Chun Doo-hwan nel maggio 1980, lasciò nella sua famiglia, trasferitasi a Seoul da soli quattro mesi, «un senso di colpa profondo e duraturo». Tre anni più tardi, il padre tornò a Gwangju per un viaggio e vi acquistò un album di foto con la macabra documentazione fotografica del massacro che vi era avvenuto e delle tante persone uccise. «Rimanemmo tutti in silenzio fino all’ora di andare a letto, quella sera». All’epoca Han Kang aveva soltanto 13 anni, ma sfogliare per la prima volta quell’album le suscitò delle domande che non l’abbandoneranno più: che cosa sono gli esseri umani? Qual è la natura del potere? Anni dopo, racconterà quella carneficina nel romanzo Atti umani.

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