Poi, immagino, alla sera tornata a casa si sarà lasciata andare a un pianto a dirotto per essersi delusa di nuovo. Sono due anni che Giorgia Meloni si impone di essere capa di governo ma soprattutto statista. Si sforza di piacere ai salotti che contano, studia per addolcire l’irruenza che la assimila agli altri capi-macchietta del circo politico. Telefona, immagino, al suo armolinguista per correggerla quando esce dai gangheri.
Poi come ogni anno arriva Atreju e la sua inguaribile fobia di perdere presa sulla sua famiglia di Fratelli d’Italia butta via tutto il lavoro fatto. La Giorgia Meloni che piace da quelle parti è la sacerdotessa del revanscismo. Quelli la votano soprattutto per potersi togliere la soddisfazione della vendetta, per poter svelenire. Gli avversari politici sono nemici, gli elettori degli altri sono collaborazionisti del nemico e l’Italia è un trono tronfio per irridere dall’alto.
Così la presidente del Consiglio che sognava di essere uno dei maschi che la votano irrompe con un discorso politico contro Schlein, omosessuale, che «fa la battaglia partigiana sui carri allegorici del gay pride», contro Saviano «guru dell’antimafia», contro i magistrati «irragionevoli» perché non accarezzano i suoi istinti, perfino contro Romano Prodi che a 85 anni disturba ancora i suoi sogni.
Dodici mesi a coprire il livore con il fondotinta e poi basta l’odore della festa per sciogliere il trucco. Meloni si lascia andare con i suoi amici e il faticoso lavoro di mimo diventa inutile. Poi, immagino, alla sera tornata a casa si sarà lasciata andare a un pianto a dirotto per essersi delusa di nuovo.
Buon lunedì