«Io mi auguro che la pace si avvicini. Sono valutazioni della situazione militare sul terreno. Mi sembrava ovvio che l’Ucraina non avesse le forze per riconquistare la Crimea. Adesso l’importante è che la guerra finisca perché ci sono ancora conflitti in corso, abbiamo visto cos’è successo a Mosca, vediamo cosa succede nel Donbass, in territorio russo, in territorio ucraino. Noi lavoriamo per la pace, che sia una pace giusta, sapendo bene che la pace non può essere la resa dell’Ucraina, perché c’è stato un invasore e un Paese che è stato attaccato, però bisogna lavorare per la pace».
Non sono le parole di un sinistro pacifista. A pronunciarle ieri è stato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, membro della schiera che all’inizio del conflitto riteneva la guerra elemento risolutivo dell’invasione russa in Ucraina. La dichiarazione è la ricaduta locale di ciò che ha lasciato intendere, sempre ieri, Zelensky: per come stanno le cose il Donbass e la Crimea son definitivamente perdute.
La svolta era fin troppo facile da prevedere. Che l’Ucraina avesse davvero la possibilità di vincere la guerra contando su un sostegno reale dell’Ue e dell’Occidente era la pillola indorata dei signori delle armi che delle vite ucraine – così come delle altre sparse nel mondo – hanno pochissimo interesse.
La «guerra giusta», la «difesa della democrazia», il «ripristino della legalità internazionale» e gli altri altisonanti principi enunciati fin qui avevano un preciso scopo: adornare le fatture delle armi vendute e profumatamente pagate. Poi il resto – le vite e le speranze delle persone – possono essere sacrificate sull’altare di un’improvvisa voglia di pace.
Buon giovedì.
Nella foto: il presidente ucraino Zelensky e la presidente della Commissione Ue Von der Leyen