Escluse per anni dalla progettazione urbana, le architette e urbaniste hanno maturato una competenza nell’ideare la qualità degli spazi pubblici. «Ora è giunto il tempo di farla diventare un’azione politica»,dice Elena Granata, autrice del libro "Il senso delle donne per la città"
Nel 1405 Christine de Pinzan in La città delle dame, un’opera utopica e un manifesto femminista, immaginava la costruzione, con l’aiuto di Ragione, Rettitudine e Giustizia, di una città fortificata dove le donne potevano vivere libere da ogni legame patriarcale, da ogni pregiudizio, e soprattutto, erano protette dalla violenza «di così tanti aggressori». L’idea di creare uno spazio libero per le donne, reale o immaginario, affonda le sue radici nel Medioevo e con lo sviluppo dell’industrializzazione e la tumultuosa crescita dei centri urbani fu al centro della riflessione e dell’attivismo femminista nelle società occidentali. Il tema è oggi valorizzato da tante professioniste. Elena Granata, autrice di libri come Placemaker (Einaudi) e Il senso delle donne per la città (Einaudi) e docente di Analisi della città e del territorio e di Geografia urbana al Politecnico di Milano, racconta a che punto siamo e quale la strada da tracciare. Elena Granata, anche nell’architettura entrano in gioco quei marcatori culturali che hanno fermato il contributo delle donne? Ovviamente sì, ma ho la sensazione che siamo davanti a un grande risveglio da parte delle donne che hanno trascurato per troppo tempo il loro punto di vista sul mondo. E allora oggi si scrive, si studia e si ragiona tanto, ma questo non corrisponde affatto a un miglioramento della condizione delle donne nelle città. Ci muoviamo in questo paradosso. Lei nel suo libro Il senso delle donne per la città propone una rivoluzione copernicana fondata sull’urgenza di una nuova consapevolezza. Di che si tratta? Parlo di un rinnovamento dello sguardo, di un coinvolgimento dei sensi e della nostra responsabilità sociale nei confronti dei luoghi fisici, partendo dalle persone che li abitano e dalle loro relazioni reciproche e con il mondo. In questo c’è un elemento potenzialmente rivoluzionario. Perché il fatto che siamo state escluse dal progetto urbano, dall’architettura tradizionale, dalle grandi opere - pensiamo ai ponti e alle autostrade, costruzioni dove le donne non ci sono - ci ha costrette a dedicare molto più tempo alla qualità dello spazio pubblico, alla sostenibilità, al paesaggio, alla luce, al benessere e all’educazione.

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