La vittoria di Trump negli Stati Uniti, ma anche la crisi dei partiti di sinistra in Europa: contesti diversi su cui si possono fare riflessioni comuni. Ecco l'analisi di uno psicologo sociale che sfata molti luoghi comuni

La vittoria di Trump negli Stati Uniti, da alcuni definita “incredibile” e la crisi della sinistra in Europa sono fenomeni diversi in quanto è diverso il contesto. Consentono tuttavia alcune riflessioni comuni.
Si può iniziare col ritenere che la vittoria di Trump confermi il fallimento di sondaggi e sondaggisti: avevano previsto quasi all’unanimità un risultato incerto, se non una probabile vittoria di Kamala Harris. Tale fallimento può essere dovuto a problemi metodologici; si veda, tra gli altri, la critica ai sondaggi di Giovanni Busino alla voce Opinione nella Enciclopedia Einaudi. È comunque sostenibile che il sentire e il pensare delle elettrici e degli elettori possa essere rilevato dai discorsi con le loro proposizioni e non da singole parole; tanto meno da risposte a domande a scelta multipla se non binaria, con i risultati sottoposti a elaborazioni statistiche più o meno raffinate che coprono la debolezza metodologica di fondo.
Si può anche ipotizzare che il fallimento dei sondaggi possa essere attribuito alla appartenenza dei sondaggisti a una élite, fallita in quanto ha perso qualsiasi contatto con quella che veniva chiamata ‘la massa’; in quanto cieca e sorda, incapace di comprendere il sentire e il pensare, i bisogni di elettrici ed elettori, tanto che la vittoria di Trump appare “incredibile”. Una élite afona, incapace di comunicare per la estraneità del suo linguaggio.

Si conferma nello stesso tempo, e di conseguenza, il successo delle non élites: gruppi e singoli individui che hanno il potere e lo usano per i loro fini; in Italia il defunto Berlusconi, ora la Meloni con i suoi supporter ed alleati, negli Stati Uniti i Musk, i Trump; opportunamente definiti ‘tycoon’, parola di origine giapponese che significa anche dominazione. Ovvero, si conferma la capacità di tali non élites di cogliere il sentire e il pensare delle elettrici e degli elettori, individuandone i bisogni per manipolarli con false promesse e soluzioni illusorie.
Si può inoltre ritenere che la vittoria di Trump confermi il potere delle nuove reti di comunicazione e di chi le possiede e controlla, i social network che intrigano in primo luogo i giovani prevalentemente estranei ai mass media tradizionali, giornali e televisione.

Mass media tradizionali che svolgono anch’essi un ruolo significativo nello spiegare vittorie e sconfitte elettorali. Si osserva infatti una distinzione tra giornali e reti televisive rivolte a un pubblico di livello culturale più elevato e giornali e reti televisive che, per brevità, potremmo definire ‘pop’. Se ci si riferisce all’Italia, tra i primi, La Repubblica, La Stampa, MessaggeroCorriere della Sera, la Terza Rete della Tv di Stato, La 7, che oltre a essere più critici nei confronti del governo, approfondiscono temi politici ed economici; tra i secondi, quelli pop, i giornali del gruppo Quotidiano Nazionale, (Nazione, Resto del Carlino), la prima e la seconda Rete della Tv di Stato, i canali del gruppo Mediaset; tutti favorevoli senza se e senza ma alla maggioranza al governo, glissano sulle sue difficoltà, e dedicano molto spazio alla cronache mondane e nere. Così, se i mass media tradizionali, compresi i giornali di partito o di parte possono solo confermare e rinforzare opinioni già formate, le nuove reti di comunicazione, i social, hanno campo libero nel trasformare, deformare, manipolare le opinioni.

Anche in riferimento al ruolo dei mass media tradizionali e nuovi, andrebbe preso in considerazione il problema posto dal cambiamento in atto del livello culturale del corpo elettorale. Al di là delle diversità tra Europa e Stati Uniti si può ipotizzare un generale progressivo abbassamento di tale livello culturale, soprattutto un processo di anomia dovuto alla rapidità dei cambiamenti oltre che alla crisi delle élites, della scuola, delle agenzie di socializzazione con la scomparsa dei vecchi partiti, in Italia la Democrazia cristiana e il Partito comunista, che svolgevano una funzione educativa e di formazione. Una manifestazione di tale anomia è la sfiducia e diffidenza verso gli esperti – emersa prepotentemente nel periodo del Covid – compresi insegnanti e medici; sfiducia e diffidenza che talora si manifestano con aggressività.
Si pone, ultimo non per importanza, il problema dell’astensionismo da spiegare nelle sue molteplici cause. Tra queste la sfiducia verso le istituzioni a partire da quelle in più diretto rapporto con i cittadini: i Comuni con la polizia locale, gli uffici tributari, le/gli assistenti sociali. Sarebbe interessante verificare se l’astensionismo è più elevato dove tali istituzioni funzionano peggio.

Di fronte alla complessità di questi e altri problemi, colpiscono le spiegazioni della crisi e degli insuccessi elettorali della sinistra sovente date da giornalisti, opinionisti, esperti vari; spiegazioni che non sono altro che slogan ripetitivi: “la sinistra non fa opposizione”, “è chiusa nelle Ztl”, “è arrogante, antipatica”, o più semplicemente “l’opposizione non esiste”; e così via cantando o talkshoweggiando. Solo slogan, in quanto pretendono di spiegare senza essere spiegati. Alcuni studiosi, volendo approfondire l’argomento, attribuiscono gli insuccessi della sinistra – della Harris come della nostrana – all’aver “rinunciato alla stella polare dell’eguaglianza a favore di quella dell’inclusione”, così tra gli ultimi Ricolfi estrapolando da Bobbio (La Stampa, 10 Novembre ‘24). La sinistra inoltre sarebbe stata coinvolta o infettata dalla “crisi woke” con la sua cancel culture, dalle ridicolaggini del politicamente iper corretto ecc. Ma questi rischiano di essere dei “luoghi comuni”, common places come vengono definiti nella letteratura internazionale che si occupa del senso comune, del suo linguaggio e delle sue retoriche (M. Billig, Ideologia e opinione. Studi di Psicologia retorica, Laterza ditore, 1995). Se si analizzasse la comunicazione della sinistra in Italia, dei suoi leader, si potrebbe scoprire che i suoi contenuti ampiamente prevalenti riguardano l’uguaglianza e non l’inclusione. Può succedere però che anche un semplice riferimento ai diritti dei transgender o al genere come libera scelta possa avere un “effetto di salienza”, emergendo e catturando l’attenzione, ponendo in ombra, annullando quasi la pur prevalente comunicazione sull’eguaglianza o, ad esempio, sul salario minimo.
È paradossale, se non ridicolo, che a cascare in simili luoghi comuni non siano, come si ritiene usualmente, delle persone comuni (laymen) ma studiosi ed esperti.
È inoltre legittimo chiedersi perché “l’eguaglianza” e “l’inclusione” debbano essere considerate delle alternative: aut aut. Dopo aver respinto certe assurdità della cancel culture, che possono essere spiegate solo da un eccesso di ignoranza, dopo aver analizzato e individuato diritti che non possono essere considerati tali, perché non lottare per avere il pane e le rose?
La “incredibile” vittoria di Trump, le sconfitte della sinistra negli Stati Uniti e in Europa pongono quindi problemi che andrebbero indagati in primo luogo empiricamente, a partire dall’analisi dei sistemi elettorali e dei risultati, del loro andamento, di come si disgregano, della misura delle vittorie e delle sconfitte. Indagini e ricerche come quelle presentate nel recente volume curato da Marc Lazar, Crisis and Challenges of the European Left (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2024).

Sarebbe inoltre necessario condurre ricerche qualitative che rilevassero ed analizzassero il linguaggio, i discorsi, per (tentare di) rilevare il sentire e il pensare delle persone. Ricerche in grado di analizzare tra l’altro “i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo e nel comportamento elettorale delle donne” opportunamente indicati da Ricolfi come “uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni”.
Allo stesso modo si continua a ripetere autorevolmente che i “I dem stanno perdendo il favore dei lavoratori e della middle class e che non hanno fatto nulla per riconquistarlo… che le élites democratiche sono generalmente distanti dai lavoratori.” (Daron Agemoglu, premio Nobel per l’economia). Ma manca una analisi che spieghi perché questo è successo. Se la politica di Biden ha favorito i lavoratori perché non li ha riconquistati, non in misura sufficiente? Quali gli errori della sinistra? Quale il peso del suo atteggiamento, per altro non ben spiegato, indiscriminatamente a favore dell’immigrazione? Quando e come è successo che le élite democratiche, negli Stati Uniti come in Italia, hanno perso il contato con quelle che venivano definite ‘masse’? Una definizione fuorviante se fa pensare a un tutto indifferenziato o tendenzialmente omogeneo, essendo invece un insieme in continuo cambiamento di categorie e classi sociali (si veda su questo da ultimo G. Ardeni, Le classi sociali in Italia oggi, Laterza editore, 2024 e l’articolo di Brotini, ” Le classi sociali esistono. E anche il conflitto” in Left, dicembre 2024). A quali cambiamenti del contesto storico e culturale e delle (ex) masse può essere attribuita tale perdita di contatto? Può essere attribuita anche allo “stile”, alle modalità di comunicazione di certi leader della sinistra? Non trascurando il ruolo della comunicazione non verbale che è quella più diretta ed efficace. Pensando a quello che in un momento decisivo di cambiamento (gli anni 90 del secolo scorso) fu un leader della sinistra italiana, e a quanti lo attorniavano adulanti, si ricordano le scarpe di pregio esibite, i gusti culinari ostentatamente raffinati, la “barca” che non era più la barchetta familiare di Berlinguer. Comportamenti politicamente motivati forse dal voler conquistare la fiducia delle classi più elevate. Queste sono rimaste dove erano, le classi lavoratrici e medie si sono allontanate. Comunicazioni non verbali, stili di comportamento lontani e che allontanano, caratteristici talora di leader e opinion leader della sinistra; dettagli certo che tuttavia meriterebbero di essere considerati.
Si delinea in definitiva un ampio e complesso campo di ricerca per studiosi che, non limitandosi a criticare con livore la sinistra, volessero dare un contributo al suo riscatto.

L’autore: Francesco Paolo Colucci già professore ordinario di Psicologia sociale, Università di Milano Bicocca

Nella foto: primo maggio a New York, 2017 (Alec Perkins from Hoboken)