«La vita privata zoppica per tutti quanti. I film sono più armoniosi della vita, non ci sono intoppi, rallentamenti. Vanno avanti come i treni nella notte.» Forse il metacinema che apre e chiude Diamanti, l’ultima opera di Ferzan Özpetek, allude proprio all’assunto di François Truffaut. Lui si rivolge così all’alter ego Antoine Doinel che in quel momento si fa chiamare Alphonse. Effetto notte fu Premio Oscar proprio in quegli anni Settanta raccontati adesso in carta da parati. Gli esseri umani, a proposito di statuette dell’Academy, sono sempre gli stessi. Fragili, sotto scacco del rimuginìo. Non c’è riconoscimento che tenga. Sarà che siamo fatti di emozioni, insicurezze, sensi di colpa, incomprensioni. Impressioni sovente sbagliate. Soprattutto sulla nostra pelle. È il bello, il brutto, della vita. Che corre veloce. Le occasioni rispetto alle premesse dell’adolescenza si dimostrano assai esigue. Deludendo aspettative. Inasprendo la velleità dei rimpianti.
Il regista racconta di nuovo la Capitale e lo fa come pochi. Lo fa con lo sguardo dell’uomo che è diventato. Del bambino e del ragazzo che è stato. Il quindicesimo lungometraggio della sua filmografia rappresenta una “soppesata”. Un totale in divenire, dunque. Niente più flashback da un passato lontano. Quel tempo viene raccontato direttamente. Scevro di indizi. Le tessere del mosaico stanno già lì. Bisogna essere bravi appena a scorgerle. Giusto per ricomporle. Sistemarle con cura.
Aspettando che la nostalgia passi da sé. Woody Allen, una volta, per bocca di Bardem (e Penelope Cruz) ha suggerito che «solo l’amore inappagato è davvero romantico». I sentimenti (r)esistono ancora. Magari sotto voce. Mascherati dall’autoironia che ne eviti lo sciupio. Luisa Ranieri l’aveva rivelato nell’ultimo capitolo della “serie”: «Chi si è voluto bene non si lascia mai. Non è il quanto, è il come. È l’intensità di un incontro che fa una storia».
Lei (con personalità, ha trovato una cifra) fa da capofila assieme a tantissime altre donne. Attrici e personaggi dello spettacolo. Diciotto, complessivamente. E se Jasmine Trinca, Vanessa Scalera e Kasia Smutniak rielaborano un peculiare circolo virtuoso, comunque consolidato, è molto piacevole (ri)scoprire interpreti di rango quali Anna Ferzetti, Milena Mancini, Loredana Cannata. Persino Mara Venier prestata (d)alla tv non sfigura affatto. Anzi. Gli oltre tredici milioni di incasso vorranno pur dire qualcosa. Alle condizioni giuste un cuoco bravo cucina bene con qualsiasi ingrediente. Le spezie fanno vivanda. Tutto è ammesso. Il consueto eccesso camp alla giudia, i maschi trattati con un filo di sussiego (Marchioni, Recano e Purgatori, intensi a prescindere), le canzoni a cappella, qualche cliché ruffiano e “frociarolo”, l’hikikomori giovanile ante litteram, San Pietro visto dal buco della serratura all’Aventino, Mina che spunta ovunque, il finale consolatorio. In fondo lo spettatore è avvisato: «L’Arte è tutta un tradimento».
Conta il cuore, allora. Quest’autore riesce sempre a fottere lo spettatore coi sentimenti. Li sa descrivere con sfacciato pudore. Uscito dalla sala potresti quasi chiedere scusa all’esistenza. E poco importa se non conosci Piero Tosi oppure manca il costume della scena finale. L’andrienne, in fondo, vale uno strascico o un mantello da strega. Basta che non si urli a sproposito, però. Stare al mondo, esistere, rimane un mestiere certosino. Solo una sarta può spiegarlo meglio al pubblico. Altrimenti in che modo potrem(m)o guardare l’amore negli occhi senza abbassarli mai? Patty Pravo è una sentenza. Il melò, Testaccio, le sigarette, la eco di Ettore Scola, le mollette di legno, il ’68, le sigarette, le spille false a via dei Pettinari, i murales disegnati ad hoc, restano un espediente. Una cartina di tornasole tesa a farci da monito. Abbiamo bisogno di ricordarlo. Vivere è complicato, ridicolo, crudele, dolcissimo. «Non siamo niente ma siamo tutto».
L’autore: Francesco Della calce è critico cinematografico, saggista e curatore
In foto un frame di Diamante, courtesy ufficio stampa del film