Non è l’avviso di garanzia – che non è un avviso di garanzia – la leva che l’opposizione potrebbe usare contro la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Quell’iscrizione nel registro degli indagati durerà il tempo di appallottolare la carta dei giornali che ne hanno scritto.
Meloni è ricattabile e probabilmente ricattata. Questo è l’aspetto più rilevante. Il cosiddetto Piano Mattei e gli accordi con la Libia – come quelli con la Tunisia – pretendono il dovere di non irritare le controparti che fanno il lavoro sporco con le persone migranti per rallentarne il flusso verso l’Italia. Al-Masri è uno dei tanti nervi che non possono essere sfiorati.
Ma c’è un freno politico che incombe sull’opposizione: quegli accordi sono stati firmati nel 2017, sono stati rinnovati nel 2020 e infine ancora una volta nel 2023. Dietro il sangue libico ci sono le firme di governi di ogni parte e di ogni colore. Dall’ideatore, l’ex ministro del Partito democratico Marco Minniti, durante il governo Gentiloni, si è passati al secondo governo Conte con il Viminale occupato da Luciana Lamorgese.
Le violenze in Libia non sono iniziate con Meloni e Piantedosi, anche se certa semplificazione politica sta premendo in questi giorni. La Libia è il sacchetto dell’umido dei nostri errori e dei nostri orrori di qualsiasi colore. All’interno del Partito democratico – ancora di più nell’affollato cosiddetto terzo polo – Minniti oggi è ritenuto un ex ministro potabile. All’interno del M5S, ancora oggi, da qualcuno l’immigrazione è ritenuta un fenomeno da stoppare più del rispetto dei diritti umani. Panni sporchi dappertutto.
Buon giovedì.
Nella foto: centri di detenzione per migranti in Libia, frame del video di Rai 3, 23 maggio 2021