L’architettura come bene collettivo, innovazione e bellezza. Su queste idee si è mosso nel dopoguerra l’architetto che Reggio Emilia ricorda con un convegno nel centenario della nascita. Ecco la storia di un giovanissimo partigiano, militante socialista e amministratore lungimirante
La mano appoggiata all’impalcatura di un cantiere, quel giovane uomo degli anni 50, elegante e sobrio, ha uno sguardo deciso, è sicuro di sé, ma non lo esibisce. La fotografia che ritrae Eugenio Salvarani, architetto di Reggio Emilia di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, è nel dépliant sulla giornata di studi con cui il 12 aprile la città emiliana renderà omaggio non solo al progettista originale ma anche all’architetto immerso nella appassionante ricostruzione del dopoguerra, al socialista impegnato e all’innovatore che studiava e immaginava la modernità come bene comune. Sarà quindi l’occasione per far conoscere ad un pubblico vasto un architetto di grande talento la cui carriera fu stroncata a soli 42 anni e per ripercorrere quei primi decenni cruciali della Repubblica in cui il cammino verso il futuro era segnato da momenti di pericolosa stasi e di buio opprimente. Come quello che avvolse la scomparsa di Salvarani nel 1967 in Etiopia mentre stava lavorando ad un progetto finanziato dalla Banca mondiale. L’aereo su cui viaggiava, questa la versione ufficiale, precipitò in un viaggio interno, ma il suo corpo e quello del principe Daniel Abebe che lo accompagnava non furono mai trovati. Il silenzio omertoso delle istituzioni italiane su questo caso, nonostante numerose interrogazioni parlamentari, ancora oggi sconvolge.
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