La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia. Non per un errore isolato, ma per un sistema che non protegge. La storia di P.P., la donna che ha visto la sua denuncia di stalking impantanarsi nella lentezza della giustizia italiana, non è un caso raro: è il paradigma di un Paese che lascia sole le vittime.
Le autorità sapevano. Sapevano delle aggressioni, delle minacce, dei 2.500 messaggi. Eppure, tra rinvii e prescrizioni, l’ex compagno ha ottenuto l’impunità. E ora lo Stato paga 10mila euro per i danni morali: una cifra che sa di elemosina per chi ha visto la propria sicurezza calpestata.
La condanna della Cedu fotografa una macchina giudiziaria che non riesce a garantire giustizia tempestiva alle persone che denunciano violenza. I numeri sono noti: troppe donne uccise da uomini già segnalati, troppi fascicoli lasciati a prendere polvere finché non arriva l’irreparabile. Il ritornello è sempre lo stesso: “Non c’erano elementi per intervenire prima”. Falso. C’erano, ma non bastavano. Non bastano mai.
Nel 2024, una donna è stata colpita con dieci martellate dall’ex compagno, che aveva già precedenti per maltrattamenti. Nel 2023, Vanessa Ballan ha denunciato il suo stalker prima di essere uccisa. P.P. ha denunciato e ha atteso che la giustizia facesse il suo corso, ma la giustizia ha scelto di non correre.
L’Italia è stata condannata, ma non è la prima volta. E non sarà l’ultima. Finché il sistema continuerà a trattare la violenza di genere come una faccenda privata, i tribunali non saranno luoghi di tutela ma di attesa. Attesa di un processo, attesa di una condanna, attesa di un’altra vittima.