L’idea di "esternalizzare" e confinare i migranti avviata dall'ex premier conservatore Sunak continua ad affascinare tanti, ma a funzionare poco. Fa forse fa un po’ gola anche al nuovo premier laburista Starmer

The Barge è il nome che gli abitanti di Portland hanno dato alla “nave-prigione” Bibby Stockholm. Per mesi è rimasta ancorata nel porto della cittadina del Regno Unito, ed è la rappresentazione plastica della feroce politica migratoria britannica.

Nell’ambito del programma il Fattore Umano il 18 febbraio  (su Rai3 alle 23,10) è andato in onda Mare dentro di Irene Sicurella e Fabio Colazzo, reportage che racconta gli ultimi giorni di questa nave. Si può rivedere su Raiplay.

Ecco il racconto per Left della coautrice del documentario

migranti a Portland, frame del reportage tv Mare dentro

«È come essere psicologicamente detenuti. Cerco di uscire ogni giorno perché non voglio stare seduto lì, mi deprimo. Ci sono tante persone, invece, che non escono mai. Penso che molti stiano soffrendo in silenzio». Con queste parole, John, trentenne kenyota, descrive la sua vita a bordo della Bibby Stockholm, un enorme colosso galleggiante senza motore, grande come un campo da calcio, approdato a Portland, nel sud-ovest dell’Inghilterra, nell’estate del 2023. Simbolo brutale dell’aggressiva politica migratoria dell’ex primo ministro Rishi Sunak, la “Bibby” è stata costruita per gli operai delle piattaforme petrolifere e fino a qualche anno fa è servita allo scopo per cui era nata. Accogliere in letti singoli poco più di 200 lavoratori che restavano lì tutt’al più qualche settimana. E invece ha lasciato il suo ultimo porto d’attracco e al seguito del suo piccolo rimorchiatore è arrivata, quasi a passo d’uomo, a Portland, con una nuova missione: ospitare – tutti i letti singoli sono diventati a castello – un massimo di 500 richiedenti asilo, esclusivamente uomini, in attesa di essere chiamati a fare il colloquio per richiedere lo status di rifugiato.
Sull’isola ci è rimasta più di anno e mezzo, fino a fine gennaio scorso, quando, ormai svuotata, ha lasciato le coste britanniche. Il contratto con l’azienda proprietaria non è stato rinnovato: troppe proteste e costi troppo alti. Alla prova dei fatti, la soluzione si è rivelata tutt’altro che conveniente rispetto agli alloggi in hotel, come aveva invece proclamato a gran voce Sunak.
Intanto, però, la chiatta ha lasciato dietro di sé molto più di un fallimento logistico: centinaia di vite da ricostruire, forse altrettanti traumi. A bordo hanno trovato alloggio, chi per qualche settimana, chi per molti mesi, uomini di qualsiasi nazionalità: afgani, sudanesi, pakistani, colombiani, somali, kenioti, a volte scappati da terre che in pochi da queste parti sapremmo trovare su una mappa, come il Belucistan. Centinaia di vite lasciate indietro e da ricominciare, di ferite da metabolizzare in fretta, perché nel limbo logorante dell’attesa non si poteva mollare mai il colpo.

Spiaggia di Portland, frame dal reportage tv Mare dentro

Leonard Farruku era albanese e aveva 27 anni quando si è tolto la vita in una delle camere della Bibby Stockholm, a inizio dicembre del 2023. Dopo aver perso, molto giovane, entrambi i genitori, aveva attraversato la Manica su un gommone, era andato a vivere in un hotel e poi, sotto richiesta del Ministero dell’interno, sulla chiatta.
L’avevano visto angosciato, le ore prima. Aveva confidato che le condizioni a bordo non erano pessime, ma che il personale li trattava come criminali.
La mattina dopo mi sono alzato presto. Volevo andare nella sala di informatica, dove si può usare il computer. Ma c’era la sicurezza e un sacco di polizia. Mi hanno detto: “Non puoi entrare. C’è un’indagine in corso. Un ragazzo si è tolto la vita, si è ucciso. Ho pensato: “questa cosa è orribile. Sono arrivato qui solo ieri”. Poi sono andato a prendere un caffè vicino alla spiaggia. Quando sono tornato alla chiatta, ho visto l’ambulanza portare via il corpo del ragazzo. Era tutto vero. Mi sono detto: “È questo il modo in cui si esce da qui? La gente qui dentro è così stressata che si uccide”.

Salah corre, frame dal reportage tv Mare dentro

Salah ha 26 anni, è scappato dalla Somalia che ne aveva 16, dopo che la tribù rivale ha ammazzato suo padre ed è venuta a cercarlo. Nove anni di viaggio infernali attraverso i lager della Libia, la traversata del Mediterraneo su un barchino di fortuna, il passaggio di Ventimiglia, due anni da senzatetto a Parigi, la giungla di Calais e un furgone su cui si è infilato di nascosto per arrivare in Gran Bretagna. Eppure quel suicidio lo ha scioccato. Non riusciva credere che quel posto facesse così impazzire. E invece ne ha presto conosciuto la routine: sorvegliati da telecamere, sottoposti ai raggi X ad ogni ingresso e ad ogni in uscita, anche quella di cinque minuti, per la sigaretta salva stress. Nessuno oltre loro poteva salire lì dentro. E poi un autobus blu allo scoccare di ogni ora per essere scortati fuori e dentro dal porto, a piedi era vietato. L’ultimo alle dieci di sera: se lo perdevi, niente cena, e soprattutto, niente rientro. Iniziava la ricerca di un posto dove passare la notte, tentando di scansare la paura che potesse diventare un’annotazione sul dossier ministeriale e pregiudicasse tutto.
La Bibby Stockholm a Portland non si vedeva, era nascosta in un porto privato sotto la collina più alta dell’isola. La spiaggia ventosa che ha ospitato gli sport velici delle olimpiadi di Londra 2012 piena di corpi paffuti e bianchi, scoperti a raccogliere i soli estivi o imbaccucati nella pioggia fredda a portare i cani a passeggiare. La chiatta ferma, chiusa al mondo, in fondo, dietro le ultime case. Lontana dagli occhi, lontana dalle coscienze. Il giorno in cui è arrivata però, i cittadini si sono fatti sentire. Due fazioni che una cosa sola avevano in comune: quella barca non l’avrebbero voluta lì. Da una parte chi la trovava disumana, ma era pronto ad accogliere i migranti in arrivo, dall’altra chi invece non li voleva proprio lì, perchè “500 nuove persone su un’isola di tredicimila sono troppe”, perché le differenze culturali erano un rischio, perché “sono tutti uomini e fanno paura”, perché l’unico medico di base dell’isola non ha posto per gli inglesi, figuriamoci per gli altri. E c’è chi su queste divisioni ha cercato di cavalcare l’onda, come Voice of Wales, Patriotic Alternative o il British National Party, i partiti di estrema destra corsi in tutta fretta a Portland a fomentare le proteste anti-immigrati, a esacerbare le sofferenze.

Pub inglese frame dal reportage tv Mare dentro

Poi è arrivato il 4 luglio 2024, quando la sinistra di Keir Starmer ha riconquistato il Regno Unito dopo un impero conservatore di 14 anni. Il giorno seguente alla sua elezione, Starmer ha cancellato l’accordo tra Gran Bretagna e Ruanda che garantiva la possibilità di inviare richiedenti asilo arrivati illegalmente nel Regno Unito nel paese africano. Una forzatura che al tempo aveva fatto reagire anche la Corte suprema e l’Onu.
Ma sembra che poco altro sia cambiato. L’idea di “esternalizzare” e confinare i migranti continua ad affascinare tanti, ma a funzionare poco. Fa forse fa un po’ gola anche al nuovo premier inglese, che a settembre scorso, parlando con Giorgia Meloni dei due centri per richiedenti asilo costruiti dall’Italia in Albania, sembrava mostrare il suo interesse per il nuovo modello.
Peccato che dall’Albania i migranti tornino inesorabilmente indietro ogni volta. Le Corti d’appello, a cui è affidata la convalida dei trattenimenti, continuano a rigettare i fermi, così come avevano fatto le sezioni Immigrazione dei tribunali. E ora il governo discute un cambio di rotta: trasformarli in veri e propri centri per il rimpatrio nel tentativo di evitare che rimangano ancora deserti per mesi. Un altro fallimento. Logistico, politico, umano.

IL FATTORE UMANO È un format di Raffaella Pusceddu e Luigi Montebello, regia di Luigi Montebello, musiche originali di Filippo Manni e Massimo Perin. La puntata da titolo Mare dentro di Irene Sicurella e Fabio Colazzo va in onda martedì 18 febbraio, alle 23.10 – Rai 3

L’autrice: Irene Sicurella è giornalista