Ventidue. Come i giorni che servono a un uomo per abituarsi alla prigionia, dicono gli studi. Ventidue, come le vite spezzate nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. L’ultima, quella di un ragazzo di ventotto anni, senza fissa dimora, che si sarebbe tolto la vita nel carcere di Trieste. Era dentro per il furto di uno zaino. Dentro un sistema che punisce la povertà con la morte.
Prima aggredito, poi isolato. Infine, l’impiccagione. Un suicidio che non è una fuga, ma una sentenza scritta dall’indifferenza. Portato in ospedale, ha trovato comunque il modo di andarsene. Perché in carcere non si muore, ci si uccide. E fuori si continua a parlare di emergenza sicurezza, senza mai nominare la mattanza dietro le sbarre.
Il carcere di Trieste ha un tasso di sovraffollamento del 169%. Significa che ogni tre persone detenute, almeno una non dovrebbe esserci. Ma c’era. Lui c’era. Lui, con altri 21 morti in tre mesi. Lui, dentro un sistema che si regge su celle chiuse e umanità aperta in due. Lui, dentro una democrazia che ha fatto dell’indifferenza una politica criminale.
Non è una statistica, è un fallimento. Non un numero, ma una condanna senza processo. Lo chiamano suicidio, ma è la lenta esecuzione di uno Stato che uccide lasciando soli. E noi, tutti, complici silenziosi, mentre il carcere si riempie di corpi e si svuota di giustizia.
Buon lunedì.