È da gennaio che siamo tornati a segnalare l’incongruità dell’aspettativa di vita quale criterio di calcolo per l’accesso alla pensione. Perché, di fatto, sul piano scientifico, essa non è affatto un criterio.
È un argomento sul quale insistiamo da molti anni. L’adeguamento automatico dell’età pensionabile all’aspettativa di vita è, infatti, una norma di singolare iniquità introdotta dal Governo Berlusconi con la legge Finanziaria del 2009.
Si tratta di un meccanismo indifferenziato di aumento dei requisiti per l’accesso al trattamento pensionistico legato, per l’appunto, all’aspettativa di vita, certificato periodicamente dall’Istat, a prescindere dall’attività lavorativa svolta. Che prevede, quale ulteriore elemento di iniquità, che i risparmi che ne conseguono, anziché rimanere all’interno del sistema previdenziale, siano utilizzati per ridurre il debito pubblico.
Prima di analizzare nel dettaglio l’assurdità di questa misura, vediamo cosa dice un’analisi presentata alla fine della scorsa settimana da Ezio Cigna, responsabile delle Politiche Previdenziali della Cgil. “Nel sistema previdenziale italiano – spiega Cigna – è previsto un meccanismo di adeguamento automatico dei requisiti pensionistici in funzione dell’aumento della speranza di vita, come rilevato periodicamente dall’Istat. Ogni due anni, attraverso un apposito Decreto interministeriale emanato dal Ministero dell’Economia e dal Ministero del Lavoro, vengono aggiornati i requisiti anagrafici e contributivi per l’accesso alla pensione. Questo sistema incide direttamente su due canali di uscita: la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata”.
“Dopo l’adeguamento del 2019 – prosegue -, che ha portato l’età per la pensione di vecchiaia a 67 anni e i contributi richiesti per la pensione anticipata a 42 anni e 10 mesi (41 e 10 mesi per le donne), i requisiti sono rimasti stabili per i bienni successivi. Tuttavia, sulla base delle attuali proiezioni demografiche, nel 2027 è previsto un nuovo incremento pari a 3 mesi, che porterà l’età per la pensione di vecchiaia a 67 anni e 3 mesi e i contributi necessari per la pensione anticipata a 43 anni e 1 mese per gli uomini e 42 anni e 1 mese per le donne, a meno che il Governo, come ha promesso, intervenga per non allungare ulteriormente i requisiti di accesso alla pensione.”
Ne consegue che, se dal mese di gennaio del 2027 dovessero scattare i 3 mesi di aumento, secondo le stime della CGIL oltre 44mila lavoratrici e lavoratori che hanno lasciato il proprio impiego in base ad accordi di accesso all’Isopensione, ai contratti di espansione e di solidarietà, stipulati tra il 2020 e il 2024, si ritroverebbero, per un periodo massimo di tre mesi, come “esodati”, cioè senza reddito da lavoro né nuova contribuzione, né con la pensione prevista.
Un errore madornale. Che ricorda la vicenda delle otto “salvaguardie” che il Parlamento, in particolare con l’azione della Commissione Lavoro della Camera che presiedevo a quell’epoca, dovette accendere per porre riparo all’errore compiuto nella legge Monti-Fornero che di “esodati” ne creò più di 150mila (all’epoca il periodo di reddito zero poteva arrivare fino a 6 anni). La memoria della politica può essere davvero corta.
E, soprattutto, in questo caso, vogliamo sottolineare di nuovo l’assurdità di questo meccanismo automatico legato a un criterio del tutto discutibile.
Questo perché, spiegava un articolo di Salvatore Cavallo che pubblicammo, già nel 2017, in un numero della rivista ‘LavoroWelfare’ dedicato interamente a questo argomento, “ci sono acclarate evidenze scientifiche che dimostrano come la speranza di vita alla nascita varia a seconda, non solo del titolo di studio e del reddito disponibile per il soggetto, ma anche della tipologia di attività lavorativa svolta […] Accanto ai fattori demografici e sociali, quali il sesso, il luogo di nascita, di lavoro e il titolo di studio, si utilizza la storia lavorativa individuale ed il settore economico di appartenenza per spiegare le differenze tra le curve di sopravvivenza individuali (…). A parità di fattori demografici, una vita lavorativa in settori non ‘usuranti’, insieme a una carriera stabile caratterizzata da alte forme di protezione e sicurezza sul lavoro, aumenta la probabilità di vivere più a lungo”. In buona sostanza: un professore ha buone probabilità di vivere più a lungo di un operaio.
Non vi è dunque alcuna equità né oggettività in questo criterio. Esso è arbitrario nella sua concezione così come nell’automatismo della sua applicazione.
L’allarme lanciato dalla Cgil è più che legittimo. Sia per le ragioni appena esposte, sia perché il Paese non ha alcun bisogno di rivedere il penoso “film” degli esodati. È il caso che la politica prevenga tempestivamente questa eventualità e che elimini, una volta per tutte, dalla struttura del sistema previdenziale, un criterio che tale non è. Del resto, il sistema è già ampiamente equilibrato attraverso i cosiddetti coefficienti di trasformazione, che bastano e avanzano.
L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare