Tutti i principali leader accettano supinamente il regime di guerra, ignorando la volontà popolare e alimentando la retorica guerrafondaia. Come 110 anni fa

Il 24 settembre 1938 Benito Mussolini, dinanzi a 100mila persone radunate a Belluno, chiese: “burro o cannoni?”. Il regime fascista scelse i cannoni e sappiamo tutti come finì. “Preferite la pace o il condizionatore acceso?”, chiedeva il 6 aprile 2022
l’allora Presidente del Consiglio italiano Draghi, rivendicando l’invio di armi a Kiev e la via militare come unica strada di fronte all’invasione russa dell’Ucraina.
Tre anni dopo, aprile 2025, non abbiamo la pace e per tenere acceso il riscaldamento d’inverno e il condizionatore d’estate paghiamo bollette alle stelle: +56,5% rispetto al 2019 quelle elettriche; +90,4% quelle del gas (dati Confcommercio).

Ancora una volta le classi dominanti scelgono il sentiero del riarmo. Fino all’altro ieri ci hanno detto che soldi non ce n’erano. Che il debito, il deficit, i vincoli, l’austerità, ci imponevano di stringere la cinghia. Niente per i nostri salari, i nostri ospedali, le nostre scuole, i nostri territori. Oggi, all’improvviso, crolla tutto. I “sacri” vincoli di bilancio sono falsi idoli che cadono da un giorno all’altro. I soldi appaiono. A palate: 800 miliardi. Ma per le armi, per riempire le tasche dei mercanti di morte, i portafogli delle grandi imprese belliche, tra cui le italiane Leonardo, Fincantieri, IDV. Che stappano champagne (o spumante, per i più nazionalisti).

Le grandi famiglie politiche europee sono d’accordo. Si dividono sui particolari: chi per il riarmo nazionale, chi per la Difesa comune europea. Chi i soldi vuole prenderli facendo debito comune, chi da nuovi tagli sociali, chi addirittura dai fondi europei per la coesione.

Nessuno però mette in discussione il diktat Nato che impone l’aumento delle spese militari (e, invece, oltre al diktat dovremmo mettere in discussione la presenza in Europa e la sopravvivenza stessa dell’Alleanza Atlantica). Al summit di giugno decideranno la percentuale: 3%? 3,5%? 5% come chiesto da Trump? Qualunque sarà, a oggi nessuno contesta la logica di fondo: tutti accettano supinamente il regime di guerra che vive della narrazione di una minaccia esistenziale di fronte alla quale avremmo la necessità di armarci. Hanno però un grande problema: sempre più persone non se la bevono. Ci hanno provato anche con uno stratagemma semantico: esce di scena il “ReArmEurope”, entra il “Readiness 2030”. La strana coppia Meloni-Sanchez ha insistito per il cambio di nome. Non certo di sostanza. Come se, parafrasando il test dell’anatra, un piano “che sembra un riarmo, cammina come un riarmo e starnazza come un riarmo”, possa essere cosa diversa dal riarmo solo perché non usiamo questa parola.

Ma niente. La maggioranza dei nostri popoli è contraria a qualsiasi forma di riarmo. Chiede più diplomazia, non più carri armati. Medici, non bombe. Borse di studio, non missili. Messa in sicurezza dei territori, non droni militari. Case, non bunker. Energia pulita, non ordigni atomici. Secondo un sondaggio Euromedia Research per La Stampa, il 94% degli italiani è contrario all’invio di truppe in Ucraina e l’87% a finanziare l’acquisto di armi.

Un’enorme maggioranza attaccata e schernita dal potere politico e mediatico. Proprio a commento del sondaggio Euromedia Research, l’1 aprile un editorialista di punta de La Stampa, quotidiano “progressista”, di proprietà di quella stessa Exor della famiglia Agnelli che possiede un’impresa bellica, Iveco Defence Vehicles, scriveva: “Un dato del genere sorprende anche chi è abituato a considerare l’Italia non proprio un Paese di eroi”.

Centodieci anni dopo l’ingresso dell’Italia nella carneficina della Prima Guerra Mondiale (24 maggio 1915), la retorica dei guerrafondai è sempre la stessa: allora ci chiamavano “panciafichisti”, oggi usano un meno poetico “pusillanimi”. Oggi come allora, contro il kit bellico di von der Leyen, Nato e governi nazionali, dobbiamo costruire il nostro kit di sopravvivenza popolare, per la pace e per il futuro: a partire dalle mobilitazioni popolari nelle strade delle nostre città, trasformando il rifiuto del riarmo in una forza politica, sociale, culturale.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al popolo
Foto PAP