L’8 e 9 giugno si terrà il referendum su cittadinanza e lavoro. Nelle varie discussioni online, può capitare di imbattersi in netti rifiuti di partecipazione al voto, sostenuti dalla bislacca idea che i due temi non abbiano nulla in comune e che affiancarli serva solo a forzare il quorum sulla cittadinanza. È vero che i quesiti del referendum sono frutto di iniziative popolari distinte: da un lato quelli sul lavoro proposti dai sindacati (contro i licenziamenti ingiustificati, il tetto all’indennità, l’abuso del contratto a termine e per la salute sul lavoro); dall’altro quello sulla cittadinanza, sostenuto da varie realtà della società civile (dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza per la richiesta). Ma non è una forzatura né, a parer mio, una coincidenza che i temi arrivino insieme al voto, poiché sono all’origine delle disuguaglianze più profonde del nostro Paese.
In Italia, la negazione della cittadinanza, così come la narrativa generale sul “pericolo” dell’immigrazione, serve alle destre a qualcosa in più che al mero consenso politico. Non si tratta solo di xenofobia: dietro si celano precise scelte economiche.
Il razzismo diffuso ha reso più debole e ricattabile una parte sempre più ampia della classe lavoratrice: quella composta da cittadini stranieri. Allo stesso tempo ha fomentato competizioni inesistenti con i lavoratori italiani, a tutto vantaggio di precisi settori del capitale.
Se negli Stati Uniti il sistema carcerario è sempre stato utilizzato per ripristinare il lavoro forzato venuto meno con l’abolizione della schiavitù, in Italia, dove le lotte sindacali del Novecento hanno reso difficile reintrodurre forme massicce di sfruttamento, è stato il ricorso alla marginalizzazione dei migranti a permettere di aggirare le regole a tutela del lavoro. Per neutralizzare lo scontro tra classe padronale e classe lavoratrice, si è scelto di razzializzare il conflitto, ovvero spostandolo dal piano verticale (padroni-lavoratori) a quello orizzontale (italiani-stranieri). Un esempio lampante è proprio il fronte dell’astensione, che rifiuta di partecipare al referendum anche se ne trarrebbe vantaggio. Pur di non estendere diritti agli “altri”, si è disposti a rinunciare ai propri.
La strategia di incorporare il razzismo nel sistema economico viene da lontano, anzi, sta all’origine stessa del capitalismo globalizzato. Proviene dalle grandi colonizzazioni dei secoli passati, da quella delle Americhe fino a quelle dell’Africa e dell’Asia. In particolare, il sistema capitalista ha avuto origine con la tratta degli schiavi in America e deve la sua fortuna soprattutto all’agricoltura di piantagione su larga scala. La rivoluzione industriale inglese, la creazione del mercato dei mutui statunitense, Wall Street stessa: tutto è nato grazie al latifondismo schiavistico. Già Karl Marx riconosceva il ruolo centrale della schiavitù nello sviluppo del capitalismo industriale moderno, ma sono stati gli studi postcoloniali – da Frantz Fanon (Pelle nera, maschere bianche) in poi – a dircelo chiaramente: il concetto di razza serve a giustificare ideologicamente lo sfruttamento lavorativo. Una spiegazione sintetica e tristemente attuale è contenuta nella prefazione di Robin D. G. Kelley al libro Marxismo nero di Cedric J. Robinson: “Il capitalismo e il razzismo… non si sono separati dal vecchio ordine [feudalesimo, ndr], ma sono invece evoluti da esso per produrre un sistema mondiale moderno di capitalismo razziale, fondato sulla schiavitù, la violenza, l’imperialismo e il genocidio.[1]” Ieri come oggi, l’Europa ha fatto ampio uso della razza per legittimare l’oppressione dei popoli colonizzati. Su questo si è costruita un’economia globale fondata, da un lato, sull’espropriazione di risorse, materie prime e ricchezze dal cosiddetto Sud globale verso l’Occidente, benefici di cui ancora oggi godiamo senza pudore, e, dall’altro, su relazioni lavorative predatorie.
L’Italia in tutto questo non è innocente. Il nostro Paese ha fatto propria la tendenza a ricorrere al razzismo per soddisfare le proprie necessità economiche, sia durante le guerre di conquista e colonizzazione in Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia (la cosiddetta ricerca del “posto al sole”), sia in tempi più recenti, come Paese partecipe dell’iniquo commercio internazionale e, al contempo, apparentemente chiuso all’immigrazione ma aperto allo sfruttamento.
La legge Bossi-Fini è stata il passaggio chiave nel processo di disumanizzazione del migrante in Italia, poiché associa l’ingresso legale a contratto di lavoro, rendendo così i migranti sistematicamente vulnerabili alla trappola della “clandestinità” e quindi ricattabili. Il sistema produttivo italiano ormai si regge su manodopera a basso costo e facilmente sostituibile, in particolare nel settore agricolo e nel lavoro domestico e di cura, dove la fragilità contrattuale e l’isolamento rendono ancora più invisibile e vulnerabile il lavoratore o la lavoratrice.
È un sistema che non solo alimenta la precarietà, ma crea deliberatamente illegalità, con lo scopo di mantenere bassi i costi del lavoro. Lo confermano anche i dati relativi all’ultimo Decreto Flussi. Secondo il report di Ero Straniero, nel 2024 solo il 7,8% delle quote d’ingresso stabilite dal governo si è tradotto in permessi di soggiorno. I posti totali previsti erano 119.890, ma solo 9.331 domande sono andate a buon fine. Il dramma sono gli 83.485 nulla osta rilasciati, con i quali i lavoratori hanno potuto migrare, ma che non sono stati convertiti in permessi di soggiorno. Questo numero esorbitante di persone è destinato a scivolare nell’irregolarità e nel lavoro nero. È evidente che il Decreto Flussi non sia stato concepito per promuovere la legalità. Per non parlare di altri crimini di cui l’Italia continua a macchiarsi: le persone lasciate morire nel Mediterraneo, quelle deportate in Albania, o la cui detenzione finanziamo profumatamente in Libia e in Tunisia.
Questo è il terreno su cui si gioca la partita del referendum: la cittadinanza come condizione che garantisce diritti fondamentali e tutela della dignità umana; la sua assenza come via libera ad abusi sul lavoro, arresti arbitrari, detenzione senza processo e deportazioni.
Il referendum non renderebbe affatto facile ottenere la cittadinanza, che prevedrebbe ancora una fedina penale pulita e un reddito sufficiente al mantenimento, oltre che la conoscenza della lingua italiana. L’unico cambiamento riguarderebbe il requisito di residenza, da dieci a cinque anni. Ma questa consapevolezza sembra non essere abbastanza.
Nonostante il nostro passato fascista, l’aver giurato “mai più”, molti di noi si stanno legando mani e piedi a questo sentimento d’odio che ci danneggia. Al seggio elettorale non ci motiva la solidarietà, né la voglia di migliorare la nostra situazione lavorativa, i diritti o il welfare, ma il desiderio meschino che lo straniero stia peggio. Ci consola solo la sua esclusione, ci gratifica solo la sua umiliazione.
Il referendum di giugno non correggerà tutte queste ingiustizie, è vero. Ma sarebbe un inizio: se l’abrogazione sarà approvata, si aprirà uno spazio politico per riforme più ambiziose, capaci di ridisegnare sia l’accesso alla cittadinanza che il volto del lavoro in Italia. Non solo: sarebbe uno schiaffo per questo governo nostalgico del fascismo, che vedrebbe evaporare la sua pretesa di rappresentare la volontà popolare con la xenofobia. Sarebbe anche un segnale netto alle sinistre del passato, che hanno promosso politiche neoliberali a scapito dei lavoratori. Ma, soprattutto, sarebbe una presa di posizione collettiva: non siamo razzisti, come vogliono farci credere. Siamo in tanti a volere un’economia diversa, una società diversa, fondata sulla dignità del lavoro e sull’uguaglianza nei diritti, a prescindere dal colore della pelle.
[1] Introduzione di ROBIN D. G. KELLEY a “Balck Marxism” di Cedric J. Robinson
L’autrice: Michela Fantozzi (sotto un suo ritratto) è una reporter indipendente





