Sono passati ormai due mesi da quando Elon Musk ha lasciato la Casa Bianca, dando il via a quello che la stampa ha definito come un plateale scambio di ingiurie fra due “cowboy da tastiera” con il presidente Donald Trump. La fine di questo inquietante sodalizio politico tecnocapitalista (iniziato con il saluto fascista di Musk durante la conferenza di insediamento), è stata accolta da molti con un più che giustificato sospiro di sollievo.
Tuttavia, l’ingombrante presenza del magnate sudafricano nel frattempo ha condizionato diverse decisioni di Washington, con conseguenze potenzialmente significative nel futuro prossimo.
Nonostante i fatti in questione siano ancora estremamente vicini, si può tentare un primo bilancio del passaggio dell’uomo più ricco del mondo alla Casa Bianca, attraverso l’impatto delle sue convinzioni politiche e sociali ma soprattutto dei quasi 300 miliardi di dollari (di cui 250 solo per la campagna di Trump) da lui investiti a sostegno dei repubblicani.
Gli effetti di questa ingerenza sono ben visibili su diversi fronti, in particolare rispetto alle attività del DOGE (Department of Government Efficiency, la controversa agenzia parastatale guidata dal multimiliardario e votata a ridurre il debito pubblico statunitense), dai profondi tagli effettuati ai programmi umanitari, all’impressionante quantità di dati personali raccolti digitalmente dall’agenzia, fino all’inserimento di uomini di fiducia di Musk in ruoli dirigenziali.
Ma la minacciosa ombra del fondatore di Tesla si staglia anche al di fuori dei confini statunitensi: il caso più evidente è probabilmente quello del suo Paese natale, il Sudafrica, i cui rapporti con Washington hanno raggiunto un preoccupante minimo storico nel corso degli ultimi mesi.
Una settimana prima delle dimissioni di Musk, Trump ha incontrato in sua presenza il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa alla Casa Bianca. Dopo l’iniziale scambio di convenevoli, l’atmosfera si è subito riscaldata: Trump ha infatti chiesto al suo interlocutore del cosiddetto “white genocide”, termine usato in alcune teorie del complotto con riferimento al presunto sterminio della popolazione bianca in Sudafrica. Senza lasciare a Ramaphosa il tempo di rispondere, le luci si sono spente ed è iniziata la proiezione di un video che mostrava una strada costeggiata da migliaia di croci bianche, indicate da Trump come le tombe di altrettanti agricoltori bianchi assassinati. Il presidente degli Stati Uniti ha poi elencato una serie di nomi di proprietari terrieri bianchi, ognuno seguito dalla parola “dead”. L’incontro, trasmesso in diretta televisiva, ha collezionato diverse definizioni piuttosto eloquenti da parte della stampa, come “trattamento Zelensky”, “trappola” e “imboscata dello Studio Ovale”.
Nonostante il presidente sudafricano abbia mantenuto la calma, smascherando le affermazioni di Trump come infondate e invitando il suo interlocutore all’ascolto, l’incontro non ha certo allentato la tensione fra i due Paesi: nel febbraio scorso, Washington ha soppresso il proprio programma di assistenza umanitaria destinato al Sudafrica, mentre a marzo l’ambasciatore sudafricano Ebrahim Rasool è stato espulso dagli Stati Uniti e definito dal segretario di stato Marco Rubio “un razzista che odia l’America”. Lo stesso Rubio ha poi messo in dubbio la propria partecipazione al prossimo G20, che si svolgerà a novembre a Johannesburg, per “non alimentare l’anti-americanismo”.
Dietro questo progressivo deterioramento nelle relazioni bilaterali è possibile intravedere l’influenza di Musk e di quella che i media statunitensi hanno battezzato “PayPal Mafia”. Con questa espressione si indica un circolo di imprenditori multimiliardari, legati alla società di pagamenti digitali e soprattutto accomunati da radici che affondano nel Sudafrica dell’apartheid. Oltre al già citato Musk, la dicitura comprende altri due dei principali finanziatori di Trump, il miliardario tedesco Peter Thiel, co-fondatore dell’azienda, e il sudafricano David Sacks, già direttore operativo (COO). Chiude il quadro l’ex direttore finanziario (CFO) Roelof Botha, che mantiene un profilo pubblico più defilato ma è sempre rimasto molto vicino a Musk.
Le famiglie di questi personaggi facevano parte della comunità afrikaner, i discendenti dei coloni olandesi (e in minor parte anche tedeschi e francesi) anche noti come boeri, che rappresentavano l’apice di una società interamente razzializzata: nel 1971, anno di nascita di Musk, il primo ministro era John Vorster, ex generale di una milizia filonazista e successivamente integrato in quel National Party che introdusse l’apartheid. Diverse fonti descrivono l’educazione degli afrikaner come fondata sul nazionalismo cristiano (a sua volta accostato alla dottrina nazista da numerosi studiosi e dallo stesso Vorster), che ha storicamente raccontato i boeri come le vittime di una persecuzione da parte degli inglesi e degli zulu, e l’apartheid come un mezzo necessario per proteggere la loro cultura e, di conseguenza, la loro stessa esistenza.
Le famiglie di Musk e Thiel si erano stabilite in Sudafrica proprio perché attratte da tale ideologia: il nonno materno di Musk era a capo di un movimento antisemita e filofascista in Canada, mentre i Thiel hanno risieduto a lungo nella cittadina di Swakopmund (nell’attuale Namibia), nota per celebrare il compleanno di Hitler. Una biografia di Thiel racconta che questi difendeva attivamente il sistema dell’apartheid nei suoi anni da studente, definendolo come “economicamente valido”. Entrambe le famiglie erano attive nel settore minerario, una delle massime espressioni del privilegio bianco: Errol Musk, padre di Elon e descritto dalla stampa come la “figura moderata” della famiglia, ha dichiarato di essere “tanto ricco da non riuscire neppure a chiudere la cassaforte”. Roelof Botha è invece il nipote dell’ultimo ministro degli Esteri dell’era dell’apartheid.
Fu solo verso la fine degli anni Settanta che questo ordine venne messo in discussione con le prime manifestazioni contro la segregazione razziale e la diffusione del modello socialista tra i governi dei paesi limitrofi, dall’Angola al Mozambico allo Zimbabwe. Questi eventi seminarono una crescente preoccupazione tra le élite bianche: Musk lasciò definitivamente il Sudafrica nel 1988, mentre un numero sempre maggiore di afrikaner confluiva nel neonazista Movimento di resistenza Afrikaner (AWB) per arginare quello che Vorster chiamava swart gevaar, il “pericolo nero”.
Questa narrativa non sembra discostarsi troppo dal “white genocide” millantato da Trump a distanza di oltre 50 anni. Tuttavia in questo caso vi è una differenza sostanziale: la teoria in questione proviene dagli Stati Uniti! Nessuna organizzazione o partito politico sudafricano ha mai menzionato apertamente il “white genocide”, nemmeno tra le fila di schieramenti estremisti come AWB o il movimento Suidlanders, un gruppo apertamente nostalgico dell’apartheid che ha ricevuto in alcune occasioni il plauso della Lega di Matteo Salvini.
Da una parte, questo può far riflettere su una tendenza recentemente evidenziata dal New York Times: la breve parabola di Musk a Washington ha dimostrato quanto fake news e teorie cospirazioniste abbiano permeato la Casa Bianca (negli ultimi mesi ne è girata un’altra surreale e grottesca su un complotto in corso per svuotare la riserva aurea statunitense di Fort Knox).
Ma la considerazione più significativa da fare è sicuramente un’altra, e riguarda il termine “genocidio” e il suo utilizzo. Bisogna infatti ricordare che il Sudafrica è stato il primo pPaese al mondo a ricorrere alla Corte Internazionale di Giustizia denunciando il genocidio commesso da Israele nella Striscia di Gaza, mentre gli Usa hanno sempre mostrato un sostegno incondizionato al governo di Benjamin Netanyahu. Sebbene il primo tweet in cui Musk menzionava il “white genocide” sia precedente al 7 ottobre 2023, potremmo essere indotti a pensare che da allora Trump e i suoi sostenitori abbiano abbracciato la teoria cospirazionista proprio per arrivare a svuotare di significato la parola “genocidio” attraverso la sua continua ripetizione, negando così la gravità dei crimini di guerra israeliani.
Questa strategia è molto comune nella comunicazione delle estreme destre ultranazionaliste: spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dagli argomenti critici, attraverso l’utilizzo di argomentazioni pretestuose e infondate e di toni volutamente calcati. In questo modo, la comunicazione politica prende la forma di un attacco diretto contro le posizioni discordanti, condotto attraverso l’uso di slogan e che impedisce lo sviluppo di un dialogo. Così si arriva spesso a un vero e proprio capovolgimento della realtà. Non a caso, Trump ha esplicitamente parlato di un “genocidio del quale voi (you people) non volete parlare”.
Nella stessa chiave si possono leggere anche la già citata accusa di razzismo rivolta da Rubio all’ambasciatore sudafricano e soprattutto la scelta di definire “rifugiati” i 68 afrikaner che recentemente hanno ricevuto asilo negli Usa, in un momento storico nel quale i diritti dei migranti vengono frequentemente calpestati da Washington e non solo. Il ministro degli Esteri sudafricano ha esposto questo evidente controsenso nel suo commento alla vicenda, dichiarando: “È il colmo: questo ordine garantisce lo status di rifugiati a un gruppo che rimane tra i più economicamente privilegiati al mondo, mentre ci sono persone vulnerabili negli Usa e nel resto del mondo alle quali viene negato l’asilo e imposto il rimpatrio forzato, nonostante le reali difficoltà che affrontano”. Nonostante la fine dell’apartheid nel 1994, infatti, ad oggi gli afrikaner (circa 2,5 milioni, vale a dire poco più del 7% della popolazione sudafricana) occupano il 60% dei ruoli dirigenziali e controllano il 70-80% dei terreni coltivabili.
Sicuramente le ragioni dell’ostilità della “PayPal Mafia” verso il governo del Sudafrica non sono esclusivamente ideologiche, ma vi si aggiungono anche interessi di carattere strettamente economico: alcune leggi emesse da Città del Capo rappresentano infatti un ostacolo all’allargamento delle aziende di Musk (ad esempio la legge sulle imprese di grandi dimensioni, alle quali è richiesto che un 30% delle quote sia in mano a persone appartenenti a gruppi svantaggiati), mentre altre intaccano lo strapotere dei proprietari terrieri afrikaner (su tutte, la legge sugli espropri dello scorso gennaio, in base alla quale i terreni inutilizzati possono essere confiscati dallo stato anche se solo nel caso in cui questi servano all’interesse pubblico e sia stata accertata l’impossibilità di raggiungere un accordo con il proprietario).
In questo contesto tornano in mente le dichiarazioni del, a suo volta assai controverso Steve Bannon, consigliere di Trump durante il primo mandato, che ha definito gli afrikaner come “le persone più razziste sulla faccia della terra” e Musk come “un’influenza malefica” sul presidente statunitense.
Elon Musk può anche avere perso la sua carica (para)governativa dimettendosi dal DOGE, purtroppo però lascia alla Casa Bianca quanto di peggio potesse: la propria visione del mondo formata nell’apartheid. Musk per altro condivide le idee di Peter Thiel che bolla i programmi di welfare e il voto alle donne come “minacce per il sistema economico” e difende a spada tratta il privilegio individuale.
A pagare il prezzo più alto per questa ingerenza politica sono i veri rifugiati e le vere vittime di genocidio. Lo scorso 21 luglio, l’ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee (che non riconosce l’esistenza storica del popolo palestinese e si affida alla Bibbia ndr) si è distinto come il critico più feroce della dichiarazione congiunta firmata da 25 Paesi occidentali per chiedere la fine della campagna militare israeliana a Gaza e condannare le “disumane uccisioni” dei civili palestinesi, definendo il documento (fra i cui firmatari figura anche l’Italia) “disgustoso” e “irrazionale”. Nel giugno scorso, invece, gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese a bloccare una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che richiedeva un cessate il fuoco permanente a Gaza.
L’autore: Giovanni Benedetti è giornalista
In foto il presidente Usa Trump e il presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa nella sala Ovale il 21 maggio 2025 Foto wikipedia




