Ignazio Veca ricostruisce il ruolo che ebbe il Discorso del Rabbino nel fomentare l’antisemitismo. Il suo libro inaugura la nuova collana “Falsi e impostori” de Il Mulino

«Anche la falsificazione, pur riconosciuta come tale, può continuare a servire allo storico: non già perché si continui a credere a quel che essa “voleva” si credesse, ma perché essa ci è testimonianza di una determinata tendenza, di una certa idea e precisamente della tendenza dell’idea da cui il falsario era ispirato». Così Nicola Gallerano, tra i primi ad occuparsi sistematicamente di uso pubblico della storia - e di conseguenza della falsificazione o manipolazione dei documenti - metteva in luce la rilevanza dei “falsi storici” (dalla donazione di Costantino, che costituì la base del potere temporale dei pontefici “smascherata” dal filologo Lorenzo Valla nel 1517 alle più recenti teste di Modigliani risalenti al 1984), facendoli rientrare a pieno titolo, come conferma il volume qui recensito, nella sfera di interessi degli studiosi, anche per le reali e spesso tragiche conseguenze che producono nella realtà.

In questa prospettiva, un ruolo considerevole hanno avuto I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, «l’apocrifo più celebre del XX secolo». Come è noto, i Protocolli furono pubblicati sul New York Times nel 1920 (a oltre 15 anni dalla prima uscita avvenuta in Russia) come verbali di un organismo burocratico anonimo composto dai capi del sionismo internazionale che pianificavano il loro programma di conquista del mondo. Nonostante le confutazioni successive (compresa la smentita sullo stesso quotidiano americano, risalente al 1921), i Protocolli sono diventati «il prototipo del più famoso di tutti i falsi antisemiti (Norman Cohn, 1969)» dando linfa «per decenni» al «pregiudizio antiebraico in tutto il mondo» con esiti ideologici e politici giganteschi. Il Discorso del Rabbino, documento che precede di alcuni decenni i Protocolli (1881), oggetto della rigorosa e inedita indagine dell’autore, che si muove con destrezza tra storia e filologia, è presentato come «la matrice narrativa» dell’accusa riproposta nei Protocolli, che Ignazio Veca inserisce nella categoria del “plagio di successo” (indagata in particolare nel IV capitolo, La fabbrica del plagio), distinguendola da quella della falsificazione più classicamente intesa, in quanto trattasi, in questo caso, di «una invenzione narrativa prodotta dall’appropriazione fraudolenta di materiali preesistenti […] che cambiano la natura del testo originario e ne fanno un modulo narrativo da agitare sul tribunale dell’opinione pubblica» (p. 246), ossia dell’appropriazione indebita di testi altrui.

Il libro, che inaugura

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