La sera di domenica, in acque internazionali, una motovedetta libica ha sparato contro la nave umanitaria Ocean Viking mentre si dirigeva – su indicazione del centro di coordinamento italiano – verso un barcone in pericolo. Proiettili ad altezza d’uomo hanno infranto i vetri del ponte di comando. La procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta, l’Unione europea chiede spiegazioni a Tripoli, il governo italiano evita di rispondere. Questo è il quadro.
C’è una catena di comando e di responsabilità: Roma affida la gestione dei soccorsi, la «guardia costiera» libica interviene con le armi, l’Ue che l’ha finanziata prende tempo. Nel frattempo, persino la «libera pratica» sanitaria viene negata alla nave come se un adempimento potesse sterilizzare la violenza delle pallottole. L’unica urgenza, per il Viminale, diventa colpire chi salva vite: Mediterranea fermata a Trapani per aver rifiutato il porto-fantasma di Genova dopo dieci persone recuperate in mare.
I numeri smentiscono la propaganda che vorrebbe sbarchi «in crollo» a colpi di confronti truccati col 2023. La realtà è un’altra: lo Stato delega il lavoro sporco, la politica si rifugia nelle formule («chiediamo chiarimenti») e nel frattempo si costruisce un precedente. Se sparare a una nave di soccorso non comporta conseguenze immediate, che messaggio si manda al Mediterraneo? Che la vita umana può essere trattata come una variabile negoziabile in un memorandum. In questa resa dei conti, il silenzio istituzionale diventa una forma di complicità.
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