Dalla lotta GKN allo sfruttamento nell’Agro Pontino, la seconda edizione del riconoscimento promosso dalla Cgil Roma e Lazio rilancia il racconto del lavoro

La luce di Roma, della periferia romana venerdì 29 settembre dava una nitidezza scolpita, quasi abbagliante, a cose e persone raccolte nel parco, tra gli stand, le panche dove si mangia, il ping pong e lo spazio del palco. Quella luce che per Carlo Levi, che ha vissuto nella capitale dal 1945 alla sua morte, rende eterno il paesaggio, e ci permette di vivere quella che lui chiamava la “compresenza” dei tempi storici. Ci siamo ritrovati a Villa Lazzaroni a Roma (nell’ambito della Festa del tesseramento della Cgil di Roma e del Lazio) per la premiazione dei vincitori della II edizione del premio Di Vittorio, sulla letteratura che parla del lavoro.
Il premio, di rilievo nazionale, nasce con l’obiettivo di promuovere in Italia – dopo che in Inghilterra ha avuto una straordinaria fioritura – la letteratura della ‘working class’, valorizzando romanzi e racconti che pongono il mondo del lavoro al centro della narrazione. L’iniziativa vuole dare voce alle autrici e agli autori capaci di raccontare le molteplici sfaccettature del mondo del lavoro, stimolando al contempo nuove prospettive narrative.

Ripassiamo le sei opere finaliste della sezione “La chiave a stella”. Gli straordinari di Edoardo Vitali (Mondadori) e Il mio nome è Balbir, di Marco Omizzolo e Balbir Singh (People) si situano agli opposti della condizione lavorativa oggi. Da una parte due dirigenti creativi della pAngea, un’azienda che si occupa di sviluppo sostenibile e transizione ecologica. È l’incontro con il capitalismo etico, cognitivo. Dall’altra l’indiano Balbir che da 6 anni svolge il suo lavoro da schiavo, senza alcuna protezione sindacale, in una azienda zootecnica dell’Agro Pontino, rubando il cibo che il padrone destinava ai maiali. È letteralmente un invisibile.

Poi Trudy (Einaudi) di Massimo Carlotto, che racconta con sapienza “artigianale” intrighi, dossieraggi, poteri criminali nella eterna provincia italiana. Poi due libri sulla chiusura di una fabbrica. La settimana decisiva. Memorie dall’ultima fabbrica (Bookabook) di Fabio Boccuni l’Ilva di Taranto, attraverso lo straziante memoir di un operaio, Luca Rossi. Ne esce il rifiuto dell’industrialismo, della fabbrica inquinante (e oggi spenta), dell’idea perversa, tipica della modernità di una crescita economica illimitata. Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo), del collettivo di fabbrica GKN (Alegre) è una cronaca del licenziamento di massa alla GKN e poi dell’occupazione della fabbrica stessa. Infine Il diario del tempo di Lucia Calamaro (Fandango) è il diario dell’assenza del lavoro. Lei, 40enne, si ritrova da due anni disoccupata, e racconta i giorni che sono tutti uguali. Tenta di cambiare la propria vita “Oggi faccio tutto col sorriso, per prova”. La giuria popolare ha dato il primo premio a Omizzolo, mentre Vitali e Carlotto hanno ricevuto una menzione speciale da parte della giuria scientifica, che ho l’onore di presiedere, e che è composta da Lidia Ravera, Alessandro Pera, Angela Scarparo, Simona Baldanzi, Eugenio Ghignoni, coadiuvati da Laura Sudiro.

Dei 17 racconti inediti della sezione “Voci dal lavoro” selezionati per la loro qualità, la giuria popolare ha premiato Silvia Calamai, con Voce del verbo fare, al secondo posto Maurizio Busi, con L’Ammortizzatore sociale e al terzo Cristina Pasqua con Ora che apro gli occhi. Due le menzioni speciali della giuria scientifica: a Daniela Polimene per L’artista turnista e a Paolo Baravelli con L’ultimo guardiano (tutti saranno pubblicati, insieme a una ulteriore scelta dei migliori, in una speciale raccolta della casa editrice Alegre).

I premi sono stati consegnati dal segretario generale della Cgil, Maurizio Landini. Con questo premio della Cgil la letteratura – oggi percepita soprattutto come consumo chic e ornamento della interiorità – sembra ritrovare la sua vocazione autentica, che è quella conoscitiva ed etica. In che senso la letteratura ha a che fare con l’etica? Non è che ci rende più buoni, né fa di noi dei cittadini migliori. Uno può leggere Dostoevskij e diventare ancor più intrattabile, o commuoversi con Dickens restando indifferente alle pene del vicino di casa. …Però la letteratura ci mette davanti alla verità delle cose, oltre tutti i cliché. Dunque il contatto con un’opera letteraria ci modifica e ci interroga (sempre che ci facciamo modificare da essa): è sempre un momento di rivelazione, poi sta a noi trovare delle risposte. Però, aggiungo, in un’opera letteraria l’odio non è mai l’ultima parola, ricordiamocelo! La letteratura trasforma l’odio in amore, in comprensione e conoscenza. Poi: questi romanzi rappresentano il tabù sociale, il rimosso per eccellenza del nostro paese: il lavoro. Di cui il ceto politico non sa quasi più nulla, impegnato a proteggerci contro la minaccia dei migranti alle frontiere. E ci ricordano che la lotta di classe esiste ancora, fortunatamente (ricordo che il conflitto è ciò che fa evolvere la società: per Machiavelli il successo e la gloria della Roma repubblicana si fondavano sul conflitto!).

Certo ogni libro ha il suo destino. Un anno fa Landini regalò a Giorgia Meloni L’uomo in rivolta di Camus, chissà se l’ha letto e che impressione le ha fatto: a suo tempo Bush Jr disse di aver letto in estate Lo straniero di Camus, appassionandovisi…Come sappiamo è un romanzo bellissimo, ma anche indecifrabile, chissà cosa gli sia piaciuto, a Bush Jr…(forse semplicemente nel romanzo c’ è uno che ammazza un arabo)

Parlare del lavoro significa parlare degli esseri umani, delle loro aspirazioni profonde, di felicità, autorealizzazione e libertà. Nei romanzi e racconti del premio Di Vittorio si svolge continuamente una dialettica – per Hannah Arendt una contraddizione che non potrà mai trovare vera sintesi – già presente in Marx: liberazione del lavoro ( dunque certezza del lavoro: dignità, sicurezza, crescita professionale) e liberazione dal lavoro (inteso come coercizione esterna del bisogno e maledizione biblica). Il lavoro, che resta centrale, e che è l’attività con cui l’uomo produce se stesso, non può essere l’unico elemento che definisce la nostra esistenza.

Come la sezione dei romanzi editi anche i racconti ci presentano una estrema varietà di temi, di generi letterari, di opzioni stilistiche. E come l’altr’anno, con la prima edizione del premio, la loro pubblicazione sarà una specie di narrazione polifonica, capillare e dal basso, che ci dà immediatamente il polso del variegato mondo del lavoro, e che oggi dovrebbero obbligatoriamente leggere politici, amministratori, operatori sociali e sindacali, giornalisti e sociologi.

Massimiliano Smeriglio, presente alla premiazione, ha auspicato una letteratura capace di svincolarsi dalla cosiddetta autofiction e da una sterile autoreferenzialità intimistica. Landini ha puntualizzato che la letteratura del lavoro non solo “ci informa” – attraverso un lavoro prezioso di documentazione e inchiesta – ma genera bellezza! In che senso? Torniamo alla funzione specifica della letteratura, quella di dire la verità. Il racconto della condizione operaia – non solo della solidarietà e condivisione ma anche della sofferenza, della alienazione, della perdita di diritti – nel momento in cui si fa letteratura diventa “forma”, capace di coinvolgere ed emozionare ogni lettore: acquista un valore universale ed è destinata a restare nel tempo. Dunque è un racconto “bello” – dell’universo lavorativo – in quanto “vero”.

L’autore: Filippo La Porta è critico letterario, autore di molti libri, tiene una rubrica di recensioni su Left ed è alla guida di questo prestigioso premio Di Vittorio, dedicato alla letteratura working class