Dal Decreto Sicurezza alle piazze blindate, il governo Meloni riscrive i confini del dissenso. Sit-in e cortei finiscono nel mirino della repressione, mentre cresce la distanza tra cittadini e istituzioni

Le ultime scene pervenute dalle piazze italiane rimettono sul tavolo un grosso interrogativo, che ha cominciato a diventare argomento di discussione fuoriuscendo dai soliti circoli accademici o “d’area”, che ruota intorno a un concetto, “repressione”. Il tema in realtà è stato dibattuto conquistando a poco a poco una platea più ampia partendo da ciò che ha rappresentato un punto di svolta, ovvero l’approvazione del cosiddetto “Decreto Sicurezza”, ormai legge.

Una legge che ha sollevato vari interrogativi, prima di tutto di ordine costituzionale: è possibile che anche la disobbedienza civile, come i sit-in per strada o sui marciapiedi, lo sciopero della fame in carcere, le azioni degli attivisti climatici, il tutto preceduto dalla famosa norma anti-rave, possano diventare, da esternazione di opinioni e azioni di dissenso, reati? Ed è possibile che nello scontro fra cittadino e forze dell’ordine, nell’eventuale processo, la tutela degli agenti sia affidata allo Stato, mentre il cittadino paga di tasca sua? Dov’è finito il principio squisitamente liberale dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? O forse c’è qualcuno che gode di un principio di diseguaglianza, ma a proprio favore?

Naturalmente gli interrogativi non si fermano qui, ma sono già abbastanza numerosi, numericamente e qualitativamente, per mettere in luce quanto la fiducia collettiva della comunità nelle istituzioni e nelle sue rappresentanze d’ordine possano trovarsi, per la prima volta dopo decenni in questo Paese, distanti. Uno stato d’animo che ben risulta, solo per fare un esempio, da alcune riflessioni di un cittadino che si è trovato, con migliaia di persone, a manifestare a Udine il proprio dissenso per la partita Italia-Israele. Al di là della condivisione o meno delle posizioni espresse infatti, c’è qualcosa di diverso che emerge dalle sue considerazioni inviate al giornale, e che riguarda un tema delicatissimo, ovvero quello delle relazioni Stato-Cittadino. Un tema che in tempi non sospetti veniva declinato dall’ex giudice Beniamino Deidda, nei suoi interventi sul sistema sicurezza inaugurato dal governo, come un rischio di frattura della fiducia fra popolo e istituzioni. Un vulnus grave, in un sistema democratico almeno.

“Sarà ingenuità o semplice fortuna – scrive il nostro lettore, manager aziendale – ma in una quindicina d’anni di cortei e manifestazioni manganellate addosso, piene, dritte, sanguigne, io non le avevo mai prese. Ieri sera a Udine è successo per la prima volta (…) È successo mentre con un minuscolo gruppo di manifestanti di mezza età ci nascondevamo dietro alla pensilina dell’autobus tentando di parare i colpi secchi dell’idrante sparato a fiotti sulla folla. È successo mentre pensavamo di essere al sicuro, immobili, inermi, con le braccia alte sul vetro di sostegno della balaustra e a decine di metri dal cordone di sicurezza della Polizia di Stato (….) Quello che resta invece è la nitida convinzione che in piazza sia morto l’ennesimo brandello di libertà al dissenso, ammutolito sotto la pioggia battente di zelo violento e cameratismo tossico istituzionalizzato (…)”.

E’ su questo punto, sulla questione strutturale che riguarda la frattura che si sta producendo fra una massa che sente di avere il diritto di esprimere il dissenso e un sistema che invece si fa sempre più funzionale alla erosione-negazione del suo esercizio, con continue giustificazioni legate all’attività di gruppuscoli violenti, che ci rivolgiamo al sociologo Vincenzo Scalia, professore associato di Sociologia della devianza dell’Università di Firenze. Il tema è: quanto può reggere una democrazia alla riqualificazione del dissenso come reato? Il problema, tutto sommato, riguarda anche il consenso, partendo da un segnale inquietante per ogni democrazia, che possiamo sintetizzare così: piazze piene, urne vuote.

Intanto, per chiarire un punto di cui molto si parla ma spesso si dà per scontato, il primo passo è capire di cosa si sta parlando. “La repressione può essere definita come l’insieme di quelle pratiche che mirano a rimuovere o addirittura a soffocare del tutto ogni tentativo di manifestazione o espressione di un punto di vista diverso. O quantomeno di ridurlo”, spiega il professor Scalia. In sintesi, possiamo anche dire che è il tentativo di annullare il dissenso, ovvero il “sentire diversamente” di qualcuno rispetto a qualcosa. “Nell’accezione in cui la stiamo intendendo, la repressione è fare ciò (ovvero attivare strumenti contro il dissenso) facendo leva su mezzi di coazione. La repressione psicologica è altro”.

Tenendo conto di questo, il secondo passo, per capire il meccanismo che induce la gente a diffidare della politica intesa anche come istituzioni, potrebbe essere il seguente: c’è corrispondenza fra repressione e disaffezione alla vita democratica, il cui momento maggiore in un sistema costituzionale liberal-democratico universale sono le elezioni? Ovviamente, il tema è complesso, ed è in questo senso che considerazioni come quelle riportate poco sopra possono far suonare l’allarme. Ma è possibile che la crisi parta proprio dalla restrizione dello spazio del dissenso?

“Comunque sia, si allarga sicuramente il divario fra popolo e rappresentanza politica. Più c’è possibilità di esprimere le proprie posizioni e anche di rivendicarle, maggiori sono le possibilità che il dissenso venga incorporato all’interno delle istanze politiche, maggiore è la legittimità che i cittadini attribuiscono alle istituzioni. Viceversa, se questo processo si innesca al contrario, è ovvio che si va incontro a una delegittimazione da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni”. Basta vedere ciò che succede ad esempio in Irlanda del Nord, quando la minoranza cattolica repubblicana veniva repressa, suggerisce il professore. “Con il Bloody Sunday, l’Ira, considerata dai più un residuato bellico, conosce di colpo una seconda esistenza. Se nel ’72 si diceva “IRA I Ran Away”, dopo il Bloody Sunday la partecipazione alla lotta armata cresce esponenzialmente. I neri americani, dopo l’omicidio di Martin Luther King, ingrossano le fila del Black Panther Party”.

Il paradosso insomma non è per niente un paradosso: l’esclusione violenta delle classi sociali che portano avanti richieste anche elementari come pace, lavoro, maggiore equità nella distribuzione della ricchezza e nelle chances, sicurezza tout court (anche questa è infatti nella sua declinazione ultima un’istanza sociale) crea rivalsa violenta. Gli esclusi dal sistema cercano di entrare nel sistema con altri mezzi. La debolezza apparente delle democrazie è anche la loro forza: essere capaci di inclusione sotto la credibilità di regole comuni. Ma se le regole vengono usate “contro”, classi sociali, gruppi di interesse, diritti, il magico gioco rischia di andare in frantumi.

Urne vuote segnale da non sottovalutare quindi? “Diciamo che il problema è più complesso di quanto appaia. La diserzione alle urne (evidente anche nell’ultima mandata elettorale della civilissima Toscana, ndr) può essere agganciato da un lato anche al riflusso che ha segnato il ritiro diffuso delle persone nel proprio privato in seguito alle sconfitte delle utopie dei movimenti degli anni Settanta; dall’altro lato, troviamo partiti che parlano di governo dell’esistente, di elettorato di opinione, creando una sfera che tende ad escludere fasce sempre più ampie di elettori. Ci chiediamo dunque il motivo per cui la gente vota di meno, ma va in piazza? Nelle piazze non c’è bisogno di una legge elettorale per partecipare, ci vanno tutti. Nelle urne ci sono leggi elettorali che ad esempio, mettono il limite della raccolta firme per presentare una lista, oltre al fatto che una campagna elettorale richiede non solo finanziamenti ma anche l’accesso a spazi che non sempre vengono concessi; di conseguenza, la gente va in piazza perché in piazza conta. Punto. Almeno fino a quando non metteranno il divieto di adunata sediziosa”.