lIlrinnovo tacito del memorandum racconta molto più di un atto amministrativo: racconta un Paese che si abitua a delegare i propri confini alla tortura, e la propria coscienza al silenzio

L’Italia ha scelto ancora il silenzio. Nessun voto, nessun dibattito, nessuna parola pubblica. Il memorandum con la Libia, firmato nel 2017 e rinnovato automaticamente ogni tre anni, continuerà a vivere fino al 2029. È il quarto rinnovo consecutivo di un accordo che affida il controllo dei migranti a milizie e carcerieri, sotto il nome burocratico di “cooperazione contro l’immigrazione illegale”. La clausola dell’articolo 8 bastava a garantire la continuità: se nessuno lo revoca, si rinnova da sé. E infatti, ancora una volta, nessuno ha voluto toccarlo.

Dal 2017 le Nazioni Unite documentano in Libia torture, violenze sessuali e schiavitù sistematica. Eppure l’Italia continua a fornire motovedette, fondi e addestramento alla cosiddetta guardia costiera libica. Una collaborazione che la Corte penale internazionale guarda ormai come un caso da manuale di complicità politica. Lo stesso caso Almasri — l’aguzzino riportato a Tripoli con “tante scuse” dopo un mandato d’arresto dell’Aja — è diventato simbolo di questa alleanza di comodo.

Il governo Meloni ha scelto di lasciare correre, come i precedenti. Ma il rinnovo tacito del memorandum racconta molto più di un atto amministrativo: racconta un Paese che si abitua a delegare i propri confini alla tortura, e la propria coscienza al silenzio.

Il Parlamento ha fatto scadere perfino l’ultima occasione utile per fermare la proroga automatica. Chi ieri lo ha voluto e chi oggi lo difende condividono una responsabilità lineare: i lager restano aperti, le catene restano strette, e l’Italia si limita a timbrare le ricevute, chiamandola strategia.

Buon lunedì.

In foto, l’attacco armato della guardia costiera libica alla ong Mediterranea