All’inizio dell’estate del 1819 una compagnia di cacciatori britannici marciava nel folto della giungla nei dintorni di Aurangabad, nel Deccan, quando la tigre che stava braccando scomparve in un profondo burrone. Alla guida del gruppo c’era il capitano John Smith, un giovane ufficiale di cavalleria di Madras. Incitando i suoi compagni a seguirlo, Smith si mise sulle tracce della tigre, calandosi lungo la ripida scarpata semicircolare di basalto e attraversando a balzi l’alveo roccioso del fiume Waghur. Da lì si fece lentamente strada attraverso la fitta boscaglia sull’altro lato dell’impervio anfiteatro roccioso. A metà della salita, si arrestò bruscamente. Le impronte conducevano direttamente a un’apertura nella parete rocciosa. Ma era chiaro che quella cavità non era un antro naturale né una grotta scavata dal fiume. Nonostante l’erba alta, i rampicanti invasivi, le piante di pepe e il denso sottobosco spinoso, Smith si rese conto di trovarsi dinanzi a una facciata artificiale, intagliata direttamente nella roccia. Il versante irregolare della scarpata era stato meticolosamente scolpito in un portico perfettamente delineato. Era chiaramente un’opera di grande raffinatezza, ed era altrettanto chiaro che fosse stata abbandonata per secoli. Pochi minuti dopo, il gruppo si inoltrò cautamente all’interno. Smith reggeva una torcia improvvisata di legno ed erba secca, mentre i suoi compagni impugnavano saldamente i loro moschetti. Si ritrovarono in una vasta sala, lunga circa trenta metri e larga dodici, interamente scavata nella viva roccia. Su entrambi i lati, trentanove colonne ottagonali si susseguivano in perfetto ordine. Nell’abside in fondo alla sala si ergeva la cupola circolare di uno stupa buddhista, ricavato, come tutto il resto, nella solida pietra della montagna. Nella semioscurità, gli ufficiali scorsero i contorni sbiaditi di antichi affreschi. Sulle colonne erano raffigurati monaci in piedi su loti blu, con aureole bianche e tuniche arancioni, mentre sui muri di roccia erano dipinti elaborati pannelli ricchi di scene affollate, come se una pergamena miniata fosse stata srotolata lungo la parete dell’abside.
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