Dalla invenzione dello zero, all’arte, ai commerci. Con il suo nuovo libro, La via dell’oro, William Dalrymple ci guida in un viaggio straordinario sulle rotte che fecero dell’India antica il cuore pulsante della civiltà mondiale. Eccone un estratto

All’inizio dell’estate del 1819 una compagnia di cacciatori britannici marciava nel folto della giungla nei dintorni di Aurangabad, nel Deccan, quando la tigre che stava braccando scomparve in un profondo burrone. Alla guida del gruppo c’era il capitano John Smith, un giovane ufficiale di cavalleria di Madras. Incitando i suoi compagni a seguirlo, Smith si mise sulle tracce della tigre, calandosi lungo la ripida scarpata semicircolare di basalto e attraversando a balzi l’alveo roccioso del fiume Waghur. Da lì si fece lentamente strada attraverso la fitta boscaglia sull’altro lato dell’impervio anfiteatro roccioso. A metà della salita, si arrestò bruscamente. Le impronte conducevano direttamente a un’apertura nella parete rocciosa. Ma era chiaro che quella cavità non era un antro naturale né una grotta scavata dal fiume. Nonostante l’erba alta, i rampicanti invasivi, le piante di pepe e il denso sottobosco spinoso, Smith si rese conto di trovarsi dinanzi a una facciata artificiale, intagliata direttamente nella roccia. Il versante irregolare della scarpata era stato meticolosamente scolpito in un portico perfettamente delineato. Era chiaramente un’opera di grande raffinatezza, ed era altrettanto chiaro che fosse stata abbandonata per secoli. Pochi minuti dopo, il gruppo si inoltrò cautamente all’interno. Smith reggeva una torcia improvvisata di legno ed erba secca, mentre i suoi compagni impugnavano saldamente i loro moschetti. Si ritrovarono in una vasta sala, lunga circa trenta metri e larga dodici, interamente scavata nella viva roccia. Su entrambi i lati, trentanove colonne ottagonali si susseguivano in perfetto ordine. Nell’abside in fondo alla sala si ergeva la cupola circolare di uno stupa buddhista, ricavato, come tutto il resto, nella solida pietra della montagna. Nella semioscurità, gli ufficiali scorsero i contorni sbiaditi di antichi affreschi. Sulle colonne erano raffigurati monaci in piedi su loti blu, con aureole bianche e tuniche arancioni, mentre sui muri di roccia erano dipinti elaborati pannelli ricchi di scene affollate, come se una pergamena miniata fosse stata srotolata lungo la parete dell’abside.

Alla luce tremolante della torcia, gli ufficiali intravidero quelle che descrissero in seguito come « figure con parrucche ricciute». Calpestando un vecchio scheletro umano e altri detriti trascinati nella caverna da generazioni di predatori e animali spazzini, avanzarono un passo alla volta fino a raggiungere una colonna all’estremità della sala, accanto allo stupa. Lì, Smith estrasse il suo coltello da caccia e incise sul corpo di un essere celeste le parole: «john smith, 28° cavalleria, 28 aprile 1819 ». Nei decenni successivi, prima altre compagnie di cacciatori, poi gruppi di archeologi e di indologi seguirono le orme di Smith attraverso la giungla dei Ghati occidentali fino ad Ajanta, a mano a mano che si diffondeva la notizia dell’esistenza, in quel remoto angolo dell’India, di trenta grotte che nel loro complesso costituivano una delle meraviglie del mondo antico. Due di esse - la Grotta 9 e la Grotta 10 - furono presto riconosciute come alcune tra le stanze artificiali più antiche e meglio conservate dell’Asia. Basandosi su evidenze paleografiche, gli studiosi ritengono che furono scavate tra il 90 e il 70 a.C., dunque diverse generazioni prima che Augusto iniziasse a ricostruire Roma. Sui muri delle grotte

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