L’eccezionale testimonianza di Jean, nome di fantasia per tutelarlo da possibili vendette, rapito a 11 anni e costretto ad imparare a usare il fucile e a sparare da una formazione paramilitare nella Repubblica democratica del Congo. «Il più piccolo della mia ‘squadra’ aveva 7 anni, il più grande 12»

Kinshasa -Ho incontrato Jean al mercato, qualche giorno fa, vendeva patate dolci e mi ha implorato di trovargli un lavoro in Francia. Dietro gli occhi castani, un velo di paura. Gli ho chiesto di raccontarmi la sua storia e ci siamo incontrati nei pressi della chiesa dei Saveriani, a Panzi, dove c’è un oratorio: «Lì non desteremo sospetti». Mi ha detto. «La mia vita fa schifo e se scoprono quello che ho fatto, potrebbe peggiorare».

Jean prende fiato, si gratta la caviglia destra. «Vivevo a Bukavu, nel Sud Kivu, Repubblica democratica del Congo (RdC) con i miei genitori. Un giorno mio padre se n’è andato e mia madre, per pagare l’affitto, ha cominciato a vendere samosa, ma i soldi che guadagnava non erano sufficienti per le spese e il proprietario ci ha buttati fuori di casa. Ci siamo trasferiti da mia zia, ma anche lì i conti non tornavano e mia madre mi ha spedito a chiederli a mio zio. Arrivato a Misisi, a ovest di Bukavu, mio zio mi ha detto di aspettare la fine del mese, quando avrebbe ricevuto lo stipendio». Jean si è messo il vestito buono per incontrarmi, una felpa nera, col disegno di un gatto giallo, e dei jeans nuovi. «Mentre ero a casa sua ho conosciuto il suo vicino, proprietario di un ristorante, che mi ha proposto di lavorare con lui, mi avrebbe dato vitto, alloggio e un misero stipendio. Mio zio è stato subito d’accordo: “È giusto che a undici anni, cominci a guadagnare qualche soldo”. Due giorni dopo mi sono trasferito a vivere nel ristorante: dovevo servire ai tavoli».

Il cielo si rabbuia, nubi si addensano all’orizzonte, ma noi ci siamo sistemati al riparo di una tettoia gialla, di plastica. «Nel ristorante lavoravo assieme a Paul che lavava i piatti e René che stava in cucina. Il ristorante era aperto tutti i giorni, tranne la domenica. Quella domenica, dopo esserci cambiati, siamo andati a fare una passeggiata sino al quartiere di Nyumbi, a vedere una partita di calcio. Quando mi sono accorto che si stava facendo tardi, ci siamo avviati per rientrare». Ancora uno sguardo alle sue spalle, la paura del pregiudizio e della stigmatizzazione è enorme. «Sulla strada abbiamo incontrato un uomo che indossava un completo elegante. “Nella parrocchia della Santissima Trinità, distribuiscono la cena gratis”, ci disse. Ho guardato i miei amici e abbiamo pensato che sarebbe stato conveniente non dover cucinare. L’uomo ci rassicurò, ci avrebbe accompagnato lui.  Appena arrivati in una via laterale, ci hanno aggredito. Ci hanno legati, bendati e ci hanno ordinato di seguirli».

«Avevate capito, cosa stava succedendo?». Gli domando. Lui scuote la testa. «Abbiamo camminato a lungo, siamo arrivati al loro accampamento, nel cuore della notte. Ci hanno tolto la benda e ci hanno legato a un albero, per evitare che fuggissimo, tenendoci sotto tiro con il fucile. Al mattino, quando il sole era appena sorto ci hanno slegato e ci hanno portato una valigia piena di divise militari, ci hanno spogliato e obbligato a indossarle. La mia giacca era troppo grande ed era già stata usata da qualcuno, perché aveva una grossa macchia scura all’altezza del fianco». Jean mi osserva, ancora dubbioso se proseguire o meno. Io lo rassicuro: non userò il suo vero nome, nel raccontare la sua storia. «Abbiamo cominciato l’addestramento. Il nostro inquadratore, un ragazzo di circa diciassette anni,

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