Per questo governo, persino il consenso sessuale può diventare una moneta negoziabile

La maggioranza è tornata a giocare con i politicismi sulla pelle delle donne. La retromarcia improvvisa sul ddl consenso non nasce da un ripensamento giuridico, ma da una manovra di potere preparata con cura: il veto di Matteo Salvini, concordato con Giulia Bongiorno e imposto al governo attraverso il capogruppo Massimiliano Romeo, che arriva a minacciare di votare contro pur di bloccare il testo già approvato alla Camera. È l’effetto delle regionali: l’euforia per il risultato in Veneto diventa un’arma per aprire una crepa a Palazzo Chigi e costringere Giorgia Meloni a piegarsi.

Nel racconto che la premier fa a Elly Schlein, durante una telefonata resa necessaria dall’imbarazzo, c’è tutta la misura del cortocircuito: Meloni ammette che la maggioranza sul testo non c’era più, che Romeo aveva chiuso ogni spazio, che andare avanti avrebbe certificato una frattura insanabile. Eppure la legge era quella su cui la presidente del Consiglio aveva messo la faccia, quella che avrebbe dovuto segnare un passo avanti contro la violenza sulle donne, nel giorno stesso in cui il Parlamento approvava il reato autonomo di femminicidio.

Intorno, la destra sovranista alimenta la pressione: editorialisti di riferimento come Nicola Porro e Giuseppe Cruciani attaccano il ddl dipingendolo come una minaccia alla “libertà maschile”, con toni che rimbalzano nelle chat dei parlamentari e diventano un alibi politico per la frenata. Salvini fiuta l’occasione, interpreta il malumore del suo elettorato e pianta la bandiera. Meloni resta schiacciata: se insiste, perde la Lega; se cede, perde credibilità.

Il risultato è che la tutela delle donne viene sospesa in attesa dei rapporti di forza interni alla maggioranza. Tutto questo senza uno straccio di discussione nel merito. Solo braccio di ferro. Tutto calcolo. L’ennesima dimostrazione che, per questo governo, persino il consenso sessuale può diventare una moneta negoziabile.

Buon mercoledì.