A Gaza, nel quartiere Al-Zahra, Salah Al-Wali, sopravvissuto ai bombardamenti, racconta un inverno ridotto a “incubo senza fine”, ma anche il suo ostinato sumud, l'impegno di un padre che resiste mentre il mondo finge di credere alla fine della guerra

La cosa va così: mia figlia Eloisa, fotoreporter, si iscrive a un gruppo Whatsapp che raccoglie informazioni e fondi per i palestinesi rinchiusi a Gaza sotto le bombe. E bomba dopo bomba, dal gruppo (nomi arabi e nomi europei) cominciano ad emergere delle persone, e una di queste, avendo ricevuto una piccola somma di denaro che abbiamo raccolto, scrive per ringraziare. Nel trascorrere dei giorni lo sconosciuto (è un uomo, e si chiama Salah Al-Wali), si trasforma in un individuo preciso: uno fra i tanti palestinesi fortunosamente sopravvissuti ai bombardamenti. A quale prezzo, lo immaginavamo ma ce lo farà capire meglio, con parole accorate, e immagini drammatiche. Salah, che non smette di ringraziare ad ogni messaggio (in uno dei primi manda la foto di un piatto di cuscus con carne, e scrive: “grazie a voi oggi tutta la nostra famiglia ha fatto un vero pasto”), incomincia, con timidezza, a raccontarci la sua vita. Uno degli anonimi gazawi, si trasforma in un essere umano, con un patrimonio di sentimenti idee speranze, e una vita che la “guerra” ha devastato irrimediabilmente. Ma non si abbatte, cerca di esercitare e diffondere il “sumud”, la resilienza, e anche in un panorama di devastazione e morte tesse fili, rianimando il centro sportivo Al-Zahra Center Sports Club, che ha fondato, luogo di incontro e di aggregazione per adolescenti e giovanetti.

Salah è un vigoroso quarantenne, poeta e critico letterario, fotografo e organizzatore culturale, sposato con una farmacista: la coppia ha cinque figli. È nato nel campo di Jabalia, quello su cui Edward Said scrisse pagine indimenticabili dove i rifugiati vivevano una condizione come gli disse uno di loro di silenziosa attesa della fine: era la “morte lenta” che i bombardamenti dell’IDF hanno trasformato in morte rapida. La famiglia si è salvata, interamente, ma la loro casa, il nido dove si svolgeva la vita di sette persone, è stato distrutto, e da allora quei due adulti e cinque ragazzini si arrangiano fra tende e ospitalità presso conoscenti. Dice di sé: “Porto la mia lingua come porto la ferita della mia patria, trasformando il dolore in poesia che riflette la nostra realtà, dove le emozioni si mescolano ai luoghi, il desiderio si intreccia alla sofferenza e la pioggia si confonde con la guerra”.

E continua: “Prima del 7 ottobre, l’inverno era per me fonte di gioia e tranquillità. Quando cadeva la pioggia, correvo alla finestra a guardare le strade brillare, gli alberi respirare vita, e il freddo avvolgersi di un gusto di calore tra le case. Sentivo le risate dei bambini e li vedevo danzare sotto la pioggia…”. E ancora: “L’inverno era una musica nascosta che accarezzava il mio cuore come una madre premurosa, e mi avvolgevo nelle nostre coperte calde guardando la pioggia e sognando un domani pieno di sicurezza e gioia”.

I bombardamenti fortunosamente salvano l’edificio della famiglia, e quando giungono le notizie della tregua ormai certa, per loro come per tutti è un enorme sospiro. Il sogno della pace. Poi, d’improvviso, nella notte del 20 ottobre (2025!), militari dell’IDF ingiungono agli abitanti del quartiere Al-Zahra di lasciare le loro case, non concedendo loro neppure il tempo di portare coperte o effetti personali. Ben 24 edifici residenziali vengono distrutti in poche ore, e scrive Salah, “davanti ai nostri occhi, lasciandoci allo scoperto, a guardare la nostra sicurezza crollare e i nostri ricordi bruciare”.

Con le luci del giorno la famiglia Al-Wali è in fuga: non hanno più casa, e si apprestano a cercare rifugio in tende, aggirandosi tra macerie, alberi spezzati, vetri infranti “e una paura che avvolge”. E piove, piove, piove senza sosta.

Durante questi terribili due anni, l’inverno è arrivato due volte. Nelle tende, l’acqua, quando piove, filtra dentro, e loro ammucchiano sacchi di sabbia ai bordi come ultima linea di difesa. Ma il vento strappa il nylon e il tessuto, l’acqua raggiunge le coperte dei bambini e Salah, affranto, è colpito da un senso di impotenza che, scrive, “divora il mio cuore”, ma aggiunge, con doloroso orgoglio, “il mio dovere di padre non mi permette di arrendermi”. Desta i bambini e partono tutti in cerca di una tenda “più sicura”, correndo sotto la pioggia, sperando almeno di salvare lenzuoli e coperte, quelli non ancora fradici per l’acqua. Ricorda quei momenti nei quali sentiva “ogni goccia di pioggia come se rubasse il mio senso di sicurezza e calma”, e ogni passo era “una lotta tra il desiderio di proteggere e la crudeltà di una realtà implacabile”.

Tuttavia, anche nella nuova tenda, quando finalmente si addormenta, ha un incubo: vede l’acqua filtrare sotto le coperte dei suoi figli e trascinarli via, si risveglia, si riaddormenta, e l’incubo si riaffaccia. Quel capofamiglia disperato, ma non vinto, pensa “di riunirli tutti in un unico letto e coprirli con tutte le coperte invece di darne una sottile a ciascuno”. E non sa quale sia la soluzione migliore mentre l’acqua non smette di cadere.

L’umido, il freddo, l’angoscia hanno trasformato l’inverno da “fonte di gioia”, in un incessante “incubo che divora corpo e anima”. Non ci sono più le risate dei bimbi, sostituite da lamenti e grida, e i genitori non riescono a restituire ai figli una pur minima serenità: “la gioia si è trasformata in ansia, la tranquillità in paura, e la speranza in dolore continuo”.

Salah scrive queste righe in situazioni di fortuna, mentre la pioggia allaga la tenda sua, quelle dei vicini, e la quasi totalità delle tende del campo, nel quale, però, la prima preoccupazione non è l’acqua dal basso ma le bombe dall’alto, perché a dispetto della “tregua”, non c’è pace a Gaza. E il mondo – quello dei potenti – appare distratto, e finge di credere alla “fine della guerra”; il mondo, lontano da quella pioggia, da quelle tende infracidite, da quelle bombe che forse non cadono più ogni notte, ma sono lì come una terribile spada di Damocle. E ogni notte di pioggia ricorda a Salah che la guerra non è affatto finita, la guerra “che non ha rubato soltanto le nostre case, ma anche una parte di me e dell’infanzia dei miei figli, trasformando l’inverno in un incubo senza fine”.

Testo di Angelo d’Orsi, foto di Salah Hasan