Ci sono battaglie che resistono perché trovano un corpo collettivo in cui abitare. La Global Sumud Flotilla, finora, ha funzionato per questo: attorno a Gaza si è costruita una comunità. Le persone l’hanno scelta come specchio del mondo in cui vivono, come termometro delle cose che non vogliono più accettare. L’emozione è stata la scintilla. Poi sono arrivate la pratica politica, lo studio, l’informazione ostinata.
Adesso però il tempo cambia. I giornali non inseguono più la capitalizzazione del dolore. Lo faranno sempre meno. I politici stenderanno il fondotinta della tregua per parlarne il minimo indispensabile. Gli eventi si diraderanno. E proprio qui si misura la stoffa del Sumud: la perseveranza quando l’attenzione occidentale tenta la fuga.
Per questo conviene guardare già alla prossima missione. Entro i primi mesi del 2026 la Flotilla ci riproverà, ma via terra: una carovana di aiuti tenterà di raggiungere Rafah dall’Egitto, sfidando il Sinai militarizzato, i permessi che si inceppano a ogni checkpoint, le procedure che tengono ferme le tonnellate di materiali bloccati in Giordania da settimane . Il Cogat israeliano continua a decidere cosa entra e quando. Il valico di Rafah resta più un’ipotesi che un luogo.
È un progetto ambizioso, fragile, pieno di ostacoli. Proprio per questo è necessario. Perché il filo che tiene insieme questa mobilitazione globale è la capacità di non lasciarsi addomesticare dalla distanza né dalle attese. Sumud vuol dire tenere il punto. E il punto, oggi, è non permettere che l’assedio venga normalizzato nel silenzio.
Buon martedì.




