Dalle strade del Messico al Madagascar, da Kathmandu a Roma a Marrakesh. Così la Generazione Z sta trasformando il malessere sociale dei giovani e il rifiuto della guerra nella rete globale di una nuova resistenza. Chi rappresenterà le loro istanze sul piano politico?

La questione israeliana, con lo sterminio della popolazione civile di Gaza da parte dell’esercito di Netanyahu, le violentissime aggressioni dei coloni in Cisgiordania al fine di annichilire donne, anziani, bambini e appropriarsi delle loro terre, è una questione che ormai da decenni trascende i confini regionali. Ma forse mai come quest’anno appena trascorso ha infiammato le piazze di tutto il mondo dando voce alla domanda di pace e giustizia per i palestinesi soprattutto da parte delle nuove generazioni. In decine di Paesi, milioni di giovani e persone di tutte le età hanno manifestato pacificamente per denunciare il genocidio nella Striscia di Gaza, chiedendo la fine di blocchi, assedi e aggressioni militari. Le proteste più numerose sono state organizzate in Europa e Nord America, intrecciando solidarietà politica, diritti umani e critica al ruolo delle potenze occidentali. Segnate dall’uso massiccio di piattaforme come TikTok, Instagram e Telegram, le manifestazioni hanno portato in luce una nuova generazione di attiviste e attivisti capaci di sfidare anche la censura algoritmica e la repressione mediatica globale. Ma non c’è solo Gaza. Secondo il rapporto UN Youth2030 Progress Report 2025, i giovani continuano a essere la generazione più indifesa contro crisi economiche, disoccupazione e povertà, mentre crescono nel mondo le mobilitazioni sociali per migliorare le condizioni di vita. L’Ocse segnala un tasso medio di disoccupazione giovanile dell’11,2%, con forti disparità territoriali e ostacoli nell’ingresso al lavoro per i giovani. Questi dati evidenziano come il malessere economico e sociale alimenti un’attivazione che in tutto il globo sfida le strutture tradizionali e cerca nuovi linguaggi e forme di organizzazione, in un contesto internazionale segnato da crisi autoritarie, crimini contro civili, conflitti dimenticati o nascosti (attualmente sono oltre 50 nel mondo) e cambiamenti climatici.

In questa ottica la causa palestinese si sta configurando come un nodo centrale e simbolico delle lotte giovanili per i diritti e la giustizia sociale. Vediamo insieme come e perché partendo proprio dal Medio Oriente e da notizie raramente apparse sulle prime pagine dei media generalisti italiani. In Israele, una coraggiosa minoranza di giovani oppositori alla leva militare rifiuta di partecipare alla guerra contro Gaza, denunciando la violenza, i soprusi e la segregazione in corso da molti anni. Lo Stato risponde con arresti e dure condanne, alimentando un clima di crescente polarizzazione e repressione. Il movimento è definito “refusenik” (da refuse, rifiutare), e i ragazzi decidono di farsi arrestare pur di non arruolarsi nell’Idf, come abbiamo raccontato su Left con interviste a Yuval Dag e altri. Seppur

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Scrivevo già per Avvenimenti ma sono diventato giornalista nel momento in cui è nato Left e da allora non l'ho mai mollato. Ho avuto anche la fortuna di pubblicare articoli e inchieste su altri periodici tra cui "MicroMega", "Critica liberale", "Sette", il settimanale uruguaiano "Brecha" e "Latinoamerica", la rivista di Gianni Minà. Nel web sono stato condirettore di Cronache Laiche e firmo un blog su MicroMega. Ad oggi ho pubblicato tre libri con L'Asino d'oro edizioni: Chiesa e pedofilia. Non lasciate che i pargoli vadano a loro (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L'Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015); e uno con Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera: Giustizia divina (2018).