La manovra 2026 segna una ulteriore svolta della destra contro l’equità
Dalle promesse agli incubi. Potremmo definire così l’ennesimo intervento sul sistema previdenziale da parte di un Governo che, partito dalla promessa di cancellare la legge Fornero, sta facendo di tutto per farla rimpiangere.
La manovra di bilancio indica, ancora una volta, che dietro alle singole misure in materia previdenziale c’è una scelta molto precisa e chiara: la rinuncia a qualsiasi riforma che possa avere le caratteristiche dell’equità e della solidarietà. Nessuna risposta per le giovani generazioni, nessun confronto su come dare soluzioni alle discontinuità, nessun interrogativo sull’impoverimento costante delle pensioni in essere che, già penalizzate da un carico fiscale più alto che in tutta Europa e maggiore anche rispetto ai lavoratori, subiscono la continua perdita del potere d’acquisto stante le incessanti manomissioni al sistema della rivalutazione. L’Italia è uno dei Paesi in cui l’età di pensionamento è più alta e in cui continuano a morire sul posto di lavoro lavoratori anziani.
Dopo la scelta scellerata di dare seguito seguito al meccanismo di adeguamento dell’età pensionabile in riferimento all’aspettativa di vita, che significherà maturare il diritto alla pensione di vecchiaia a 67 anni e 3 mesi nel 2027 e a 67 anni e 5 mesi nel 2029, e quella di sospendere o rendere nulle sostanzialmente tutte le forme di flessibilità in uscita a partire da opzione donna, ci ha pensato il maxiemendamento del Governo a completare la stangata a danno dei lavoratori.
Nel maxi-emendamento si prevede, infatti, il progressivo allungamento delle finestre di decorrenza delle pensioni anticipate fino a sei mesi dal 2035 che, nei fatti, considerando anche l’adeguamento alla speranza di vita già citato, porta l’accesso alla pensione anticipata a 43 anni e 9 mesi di contribuzione nel 2035.
Le persone saranno costrette a lavorare più a lungo, e rischiano di aumentare, in ragione dei processi di espulsione dai luoghi di lavoro, i periodi che rimangono scoperti fra lavoro e pensione. A questo si aggiunge la penalizzazione che si vuole introdurre sul riscatto degli anni di laurea. Il riscatto di questo periodo, infatti, varrà per la misura dell’assegno pensionistico, ma i contributi pagati non saranno conteggiati pienamente per il calcolo del tempo di accesso al diritto previdenziale. Alcune stime ci dicono che chi riscatterà la laurea potrà, nel 2035, dover avere oltre 46 anni di contribuzione prima di andare in pensione.
Ancora una volta lo Stato cambia le regole, lo fa certamente con e per una logica di risparmio ma, in realtà, lo fa per determinare la rottura del principio di affidamento fra Stato e lavoratori e di certezza del diritto previdenziale, soprattutto nei confronti di chi avrà un ingresso tardivo nel mercato del lavoro e carriere più discontinue.
Dopo le levate di scudi sui giornali, la Presidente del Consiglio ha subito promesso che le norme sul riscatto della laurea non saranno retroattive. Non si tratta di bontà né di comprensione della gravità degli interventi che si sommano; semplicemente qualcuno deve averla avvisata della probabile incostituzionalità di una norma così pasticciata.
Ma restano le intenzioni per il futuro. Resta un partito, la Lega che fa propaganda ogni giorno con il suo Segretario e Ministro dei Trasporti, salvo poi, con il Ministro dell’Economia, smantellare chirurgicamente il diritto a una pensione dignitosa.
Ascolteremo certamente ancora le promesse di Salvini e Durigon per i mirabolanti interventi a favore delle pensioni che si faranno nel 2026. Rimangono, infine, i fatti. E i fatti ci dicono che, com’è sempre accaduto negli ultimi anni, le destre colpiscono il lavoro e i diritti, a partire da quello previdenziale.




