Cento giorni di musica on the road, quella dell’Emilia Romagna, fino a giugno, da ben diciotto anni. In diverse città della regione, nei teatri, al conservatorio o nei jazz club per quella che è una delle manifestazioni jazz più attese e seguite in Europa e che vanta protagonisti eccellenti del panorama nazionale e internazionale. Un calendario ricchissimo e vario per un pubblico attento e in crescita, anche tra i giovanissimi. Nell’edizione odierna, sui vari palchi del territorio, sono stati già applauditi Fresu, Bosso, Omar Sosa & Seckou Keita, Rava, Gatto e molti altri. Nei prossimi giorni, fino al primo giugno, ultima data per quest’anno, si esibiranno: il 31 maggio, al Teatro Asioli di Correggio, Filippo Vignato Trio, a seguire Roberto Gatto New Quartet; il gran finale sempre a Correggio con Francesco Bearzatti Tinissima Quartet. Della rassegna, dei suoi esordi, dei contenuti e dei progetti per il futuro, ne parliamo con Sandra Costantini, direttrice artistica, ma anche vice-presidente dell’associazione Jazz Network, tra i promotori dell’evento. Ci racconta, con entusiasmo, tra statistiche e aneddoti sorprendenti, questi anni di lavoro e gli splendidi risultati, guardando già alla prossima edizione con un unico intento: diffondere il “virus” del jazz!
Quest’anno il festival è diventato “maggiorenne”, considerato che è il diciottesimo anno: quali erano gli intenti iniziali e quali i risultati?
Quando nacque, nel 2000, Crossroads si delineò subito come festival regionale. Allora, alla sua prima edizione, coinvolgeva quattro città: Bologna, Modena, Ravenna e Reggio Emilia. Poi, anno dopo anno, la rete si è allargata e oggi il circuito tocca ventitré centri, grandi e piccoli, dell’Emilia-Romagna: tutte le nove province vi sono rappresentate, da Piacenza a Rimini. I concerti si tengono in sedi disparate (teatri di varia capienza, dai cento ai novecento posti, club, centri sociali, chiesette sconsacrate, sale da concerto, etc).
Chi sovvenziona tutta questa organizzazione, che vede coinvolta un’intera regione?
Non ha sponsor privati e si regge sul metodo del matching funds: andiamo a investire gran parte del contributo regionale (la Regione Emilia-Romagna è la nostra principale fonte di finanziamento) e del contributo ministeriale laddove troviamo anche sostegno locale da parte di comuni, in specie assessorati alla cultura, o associazioni come la nostra, disposti a investire assieme a noi; unendo le forze, riusciamo a realizzare programmazioni che altrimenti non sarebbero immaginabili.
Come è cambiato Crossroads in questi anni, non solo nei contenuti, ma anche negli obiettivi che si prefigge?
Direi che, crescendo, ha sempre più messo a fuoco le sue caratteristiche e la propria identità, i valori culturali che ne fanno un’esperienza unica di sicuro in Italia, ma crediamo anche in Europa se non nel mondo! Intanto la sua formula è assai originale: un festival itinerante che nell’arco di oltre tre mesi (da fine febbraio ai primi di giugno) viaggia sul territorio regionale, spargendo il fecondo seme del jazz in tutte le sue forme in lungo e in largo, con oltre sessanta concerti in programma. Per estensione territoriale (l’Emilia-Romagna è una delle più vaste regioni d’Italia!), e temporale, mi pare non abbia termini di paragone. Quel che lo rende ancora più speciale sono le parole d’ordine, i contenuti che il festival porta con sé e diffonde: la nostra “missione” è quella di rendere accessibile a tutti la straordinaria ricchezza – musicale, sociale e culturale – del jazz, per cominciare grazie a una politica di prezzi contenuti in generale e scontati ad hoc per le fasce under 25 e over 65, ma poi anche e soprattutto portando concerti e artisti in paesi piccoli e sperduti, di solito trascurati dalle istituzioni culturali, dove si perde perfino il navigatore.
La vostra, quindi, è una missione fondamentale: quella di portare ovunque la cultura.
La cultura è un diritto per tutti, ed è un dovere di chi se ne occupa fare in modo che tutti ne possano usufruire. Non esistono contribuenti di serie A e di serie B: ogni cittadino, pagando le tasse, acquisisce il diritto alla cultura esattamente come quello alla salute. Diciamo che così come anche nei luoghi più remoti c’è un presidio sanitario, noi siamo un presidio culturale.
Cerchiamo di promuovere tutte le attività della nostra associazione Jazz Network al meglio, ottimizzando appunto risorse ed energie: l’una sostiene l’altra e tutte vengono presentate in un gioco di incastri e rimandi, ogni evento si moltiplica in un’eco amplificata di mille tam-tam.
In questo periodo dalle vostre parti c’è anche il celebre Ravenna jazz: come procede questa “convivenza”?
Da alcuni anni, infatti, Crossroads porta incastonato al suo interno, nella prima metà di maggio, anche lo storico festival di Ravenna, il più longevo d’Italia per continuità, il quale a sua volta ospita in programma la serata finale della nostra iniziativa didattica (più unica che rara): Pazzi di Jazz. Dopo mesi e mesi di laboratori e incontri per le scuole e nelle scuole condotti da grandi nomi, il mega-concerto di chiusura vede sul palco 250 ragazzini esibirsi assieme ai propri eccellenti maestri (Paolo Fresu, Ambrogio Sparagna, Alien Dee), in repertori di standard jazz (ogni anno mirati) magnificamente arrangiati per l’imponente organico da Tommaso Vittorini.
L’edizione 2017 sta per terminare: qual è il bilancio di questi cento giorni?
Direi più che positivo. Soprattutto, abbiamo ascoltato concerti bellissimi, incontrato musicisti straordinari, fatto esultare intere platee. Quella della musica che finalmente si libera è di sicuro la parte più emozionante e gratificante di questo lavoro e ti permette di vivere momenti indimenticabili.
Quel sottotitolo che Crossroads si porta appresso sin dalle origini (jazz e altro) dà già l’idea della varietà di proposte artistiche che ne costituiscono ogni anno il programma: dai vecchi leoni, sempre in grado di rinnovarsi, come il grande chitarrista John Scofield col suo nuovo progetto sulla musica country, davvero splendido, o il leggendario Pat Metheny, tornato sulle scene a capo di un quartetto coi fiocchi, o la Sun Ra Arkestra, sempre sfavillante e irriverente, ai giovani o giovanissimi artisti sconosciuti ai più, ma già superstar nei propri paesi, come gli Snarky Puppy, Jacob Collier, Grace Kelly, Banda Madga, Leyla McCalla.
Che tipo di pubblico è quello della rassegna?
Assai variegato! Intanto c’è uno stuolo di fan di Crossroads, giovani e vecchi appassionati, che segue il festival fedelmente, tappa dopo tappa, senza perdersi una data. Costituiscono lo “zoccolo duro”, le “facce amiche” che rivedi a ogni appuntamento, in un luogo diverso. A livello di età, si incontrano tutte le generazioni, e il più delle volte li vedi assieme, giovanissimi e anziani. Certo alcune proposte richiamano un pubblico più adulto, altre un pubblico di ragazzi (come i già citati Snarky Puppy, fenomeno esploso tra gli adolescenti). Facemmo un’indagine approfondita sul pubblico del jazz in regione, alcuni anni fa, e ne risultò un quadro incoraggiante, secondo me tuttora attuale: quello del jazz è un pubblico colto (40% laureati, 4 volte la media nazionale); indipendente e autonomo (18,6% di liberi professionisti, imprenditori, artisti; 35% impiegati di livello medio-alto, studi e formazione avanzati: docenti, ricercatori, insegnanti, musicisti, medici, giornalisti); teso alla socialità (il 72,1% si muove in compagnia); eclettico e curioso (interessi culturali a 360%; per un concerto, il 35,1% è disposto a percorrere più di 100 km); critico e propositivo. Non è certo il tipo di pubblico che si nutre solo di televisione.
Una cosa che ho notato è che le donne, le ragazze, sono sempre di più: spesso abbiamo platee con prevalenza femminile. Mi pare una buona cosa. Si riteneva che il jazz fosse un campo di dominio maschile, specie tra i musicisti: ebbene, la storia ha smentito questo pregiudizio, non solo nel jazz sono cresciute artiste donne che eccellono in ogni strumento, ma anche dalla parte di chi ascolta, il gentil sesso è sempre più presente.
La lista degli artisti, davvero, è lo specchio di quanto di meglio offra il panorama jazzistico italiano e internazionale: da Paolo Fresu, Fabrizio Bosso, Enrico Rava ad Avishai Cohen, ma anche Carmen Souza, come del resto quelli fin qui menzionati. Con quali criteri organizzate il programma, riferendoci anche a questa edizione?
Il criterio base, irrinunciabile, è l’alta qualità artistica; si cerca poi di offrire un variegato panorama della migliore scena attuale, con un occhio alla storia e alla tradizione e l’altro all’attualità, alle novità provenienti da ogni dove, Italia compresa, per far conoscere il più possibile quanto merita di essere conosciuto. Le proposte arrivano a centinaia, da ogni parte del mondo, da musicisti come da agenzie: cerco di ascoltare il più possibile questi materiali, di curiosare tra le novità e poi sulla carta scelgo quel che mi pare interessante. Tutto poi si deve forzatamente incastrare con mille circostanze di varia tipologia: la disponibilità economica (sempre scarsa), la disponibilità degli artisti, la disponibilità dei luoghi di spettacolo (non abbiamo uno spazio “nostro” in cui programmare), la “ricettività” del tal luogo per la tal proposta, le esigenze dei partner locali e via dicendo. Non è mai semplice mettere assieme i pezzi del puzzle e raggiungere il quadro finale. Ma alla fine ce l’abbiamo sempre fatta, e con soddisfazione. Laddove si può, si cercano anche trame e fili conduttori, magari molteplici, da seguire e approfondire (per esempio, la vocalità è un tema sempre caro, così come la musica orchestrale), si perseguono differenti tipi di convivenze, stilistiche, generazionali, geografiche, culturali, e laddove se ne intravede la fattibilità, ci si diverte a mettere in piedi soluzioni e incontri inediti.
Da qualche anno a questa parte, inoltre, protagonisti di ogni edizione sono alcuni artists in residence, presenti più volte in programma alla guida di diversi progetti: si tratta dei tre trombettisti più rappresentativi del jazz italiano, Enrico Rava, Paolo Fresu e Fabrizio Bosso. Quest’anno anche il nostro batterista Roberto Gatto era artist in residence!
Lei è vice-presidente dell’associazione culturale promotrice della manifestazione. Qual è la vostra storia e quando è nata l’idea di organizzare il festival?
Jazz Network, associazione di festival e promoter europei, prima rete telematica in campo culturale al mondo, venne fondata nel 1987 a Ravenna su idea e spinta di Filippo Bianchi. Nel 2001 abbiamo dato vita a un’associazione gemella europea, con sede a Parigi, che si occupa del versante internazionale, mentre noi ci siamo concentrati su quello regionale. Le parole d’ordine di Jazz Network sono sempre le stesse: pur in un mondo ormai fondato sulla competizione forsennata, noi crediamo ancora al valore della condivisione, della cooperazione, dello scambio, della coproduzione; la promozione e diffusione del jazz e delle musiche affini rientrano in questa visione. L’intento è di diffondere il benefico virus del jazz, “un virus di libertà”, per dirla con il grande Steve Lacy.
Come conciliare le peculiarità del jazz con la nostra società, con un mondo in frenetica evoluzione?
Si dice che il jazz sia sempre stato “troppo avanti al suo tempo”, e perciò poco compreso. Oggi si parla di “globalizzazione”, si temono gli effetti economici, ma anche culturali, di questo processo. Se studiassimo un po’ di più le vicende del jazz, e allargassimo la visuale, vedremmo che proprio questo è stato in assoluto il primo fenomeno culturale “globale”, e “popolare”, fondato sulla molteplicità culturale, sulla disposizione a “intendere l’altro”, sull’inclusione. Mi piace ripetere che il jazz dovrebbe governare il mondo: non ci sarebbero più guerre, né razzismi, né ingiustizie.
È vero quello che a volte si dice, che il pubblico italiano non è così avvezzo alla musica dal vivo?
Alcuni decenni fa, il sindacato dei musicisti inglesi lanciò lo slogan “keep music live”, che è bello perché vuol dire al tempo stesso “tenete viva la musica”, ma anche “fate musica dal vivo”. È chiaro che nell’epoca dell’interconnessione globale tutti hanno ormai accesso, attraverso la tv e internet, alla cultura “mediata”, ma le zone svantaggiate non hanno accesso alla “vita culturale”, che non è mediata ma avviene “in praesentia”. Quindi se è vero che il pubblico italiano non è così avvezzo alla musica dal vivo, trattasi di processo di denutrizione culturale: noi esistiamo per portare musica dal vivo ovunque!
Il festival itinerante terminerà il primo giugno a Correggio, è già prevista la prossima edizione?
Sì, è già prevista: si terrà come sempre da fine febbraio ai primi di giugno. E ogni anno, come sempre, si ricomincerà da capo, a tessere le fila della rete, dei rapporti con i singoli partner: nulla è garantito, nulla è assicurato, bisogna ricostruire tutto ogni volta da zero. Qualche nome è già nella lista dei desiderata, ma lavorerò all’intero calendario a partire da settembre. Entro novembre il programma dovrà essere pronto. Il primo lancio alla stampa, con le anticipazioni del festival 2018, sarà dato i primi di dicembre.
Da direttrice artistica, può dire qual è stata la più grande soddisfazione di questi anni e anche di quest’anno?
Negli anni, la soddisfazione è soprattutto quella di incontrare artisti che sono anche persone incredibili. Ricordo con affetto Elvin Jones, un grande in ogni senso: quando il gigante nero ti abbracciava dopo il concerto, ti sollevava e ti inzuppava di sudore da capo a piedi! Sono anche debitrice alla potenza creativa di Archie Shepp, il guerriero del sax: lo immagino mentre nella tempesta punta il suo strumento contro i guerrafondai della terra e li sbaraglia; è sua la frase ispiratrice: «Suono per far sì che scenda la pioggia; per abolire le guerre». Fu lui a farmi conoscere uno dei miei film preferiti: Amistad, di Spielberg. Archie dice che bisognerebbe proiettarlo in tutte le scuole del mondo, io aggiungo in tutte le case.
Quest’anno, anche se il Comune continua a latitare, abbiamo avuto la soddisfazione di trovare finalmente un partner di qualità anche a Bologna. Era infatti ben strano il caso di un festival regionale in cui fosse assente il capoluogo.
Ma non tutti i comuni latitano…
Alcuni di quelli coinvolti partecipano, quello di Bologna affatto anche se abbiamo cercato, negli anni, di coinvolgerlo, chiedendo un incontro, ma non c’è stato concesso, purtroppo.
Auspici per il futuro?
Di avere la metà dei finanziamenti che hanno festival affini a Crossroads, come Banlieues Bleues a esempio, che però è più semplice da organizzare perché si tiene solo nei comuni della periferia parigina, cioè un ambito geografico ben più ristretto del nostro. Più in generale, sarebbe auspicabile che gli enti finanziatori iniziassero ad adottare anche parametri oggettivi, oltre a quelli in vigore. Al Mibact l’hanno fatto, e noi abbiamo triplicato i finanziamenti, automaticamente, per decisione di un algoritmo!