Nella loquace ondata di sdegno che ha accolto la sentenza del Tar del Lazio sul concorso con cui Franceschini ha espiantato i supermusei dal patrimonio culturale della nazione non è difficile riconoscere una delle più durevoli eredità del berlusconismo, e del renzismo che ne è derivato diretto: la sovrana indifferenza per la legge, il fastidio e l’insofferenza per coloro che sono chiamati ad applicarla, l’idea di una insindacabilità assoluta del potere politico. Una mirabile frase attribuita a Giorgio Gaber ammoniva a non temere «Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me»: ed è proprio una berlusconizzazione strisciante della cultura politica italiana il male che oggi ci affligge.
Tutto, d’altra parte, sembra riportare le lancette dell’orologio all’‘età d’oro’ di Berlusconi: il discorso pubblico che si polarizza non sugli scandali della politica ma sull’inopportunutà che i cittadini conoscano questi scandali (vedi intercettazioni); il partito personale fondato sulla fedeltà al capo (quasi tutti); il controllo ferreo dell’informazione (la Rai lottizzata bestialmente).
Frattanto, un inesauribile, prodigioso cinismo sta spingendo Matteo Renzi a far di tutto per far cadere il governo Gentiloni: con la stessa tattica, la stessa pulsione fratricida che lo condusse a far cadere quello di Enrico Letta. Per carità: governi non memorabili. Ma il dubbio fondato è che, come dopo quello Letta, ciò che verrà dopo sia peggio. Ed il mezzo che è stato scelto per aprire di fatto la crisi appare la quintessenza del cinismo politico: reintrodurre i voucher. Una mossa dal triplice significato: riaffermare una precisa visione del lavoro e dei diritti; ostentare disprezzo per l’istituto referendario e per il sindacato; esporre deliberatamente il governo all’accusa di slealtà e scorrettezza.
Tutto questo in perfetto accordo con il “Berlusconi in sé”: cioè proprio con Silvio, redivivo e consegnato all’eternità. Un Nazareno due, che deve apparire un matrimonio naturale agli elettori del Pd che hanno rieletto Renzi alla segreteria.
Tanto che è facile intravedere che alle prossime elezioni si sarà chiamati a scegliere tra due blocchi: Pd-Forza Italia (da tempo, di fatto, indistinguibili in gran parte delle posizioni politiche, e nello stile) e Movimento 5 Stelle. Una prospettiva anticipata dall’accordo sulla legge elettorale: che sembra cadere su un sistema tedesco “aggiustato”. Laddove i dubbi si addensano proprio sull’aggiustamento: non solo perché con un simile metodo Frankenstein, che cuce pezzi di ordinamenti diversi in un nuovo corpo, si rischia di ottenere un risultato mostruoso. Ma anche perché è fin troppo evidente che la partita si gioca sulla soglia di sbarramento in basso, e sull’introduzione di un vero “premio di governabilità” (dove il premio sono i cittadini, legati e mani e piedi, e la Costituzione) per il primo arrivato. In questa prospettiva diventa vitale costruire un’unica lista a sinistra del Pd. Una lista che riesca a rappresentare in Parlamento tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame. Una lista che accolga tutti i partiti attuali, ma sia molto più ampia della loro somma. Una grande lista civica nazionale di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, società civile. Una lista capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare No al referendum costituzionale. Una simile lista non si costruisce dall’alto, ma dal basso. E il momento è ora.
Diventa vitale costruire un’unica lista a sinistra del Pd, che recuperi l’astensionismo