La chiamano Maybot su internet. Ai comizi. Per strada, mentre protestano e agitano cartelli dove c'è scritto “tories out”, fuori i conservatori e “never trust a tory”, non fidarti mai di un conservatore. Oppure “Let summer end May”, lascia che l'estate si porti via maggio, il cognome della premier, May. Eppure sono rimasti in pochi a chiamarla ancora così in Gran Bretagna. È ormai per molti la Maybot.
L'ultimo termine del lessico urbano inglese - ma già annoverato tra le parole esistenti nell'ufficiale dizionario Collins - è nato da due parole che i britannici stanno associando spesso: Theresa May e robot. La parola l'ha coniata l'autore inglese John Crace dopo che la premier ha concesso un'intervista a un reporter di Sky news. Il giornalista le chiede: «Ha dei piani per l'accordo commerciale della Brexit?». La May ripete come sempre qualcosa sull'articolo 50, sul referendum, sul people, popolo. «Gli ultimi cocci di Theresa May stavano combattendo per uscire fuori dall'automa. Poi il malaware ha preso di nuovo il sopravvento», scrive Crane, stanco, come tutti i suoi connazionali, degli slogan vuoti della sua premier.
«Lei non faceva parte della campagna del Leave, non era primo ministro durante il referendum e lei non ha un mandato», dice il giornalista. Sono determinata, dice la May. Determinata a fare cosa, chiede il giornalista? La premier balbetta altre frasi fatte e poi tace.
Per molti mesi, scrive lo scrittore, la May se l'è cavata ripetendo questa frase: Brexit means Brexit, Brexit vuol dire Brexit. Oppure «nessun accordo è meglio di un cattivo accordo», ogni volta che le veniva chiesto di più delle conseguenze e del processo di divorzio dall'Europa. «Se qualcuno si azzardava a richiedere altri dettagli, diceva di non poterli rivelare. Chi era desideroso di crederle, lo faceva». Gli altri, incluso Crane, avevano paura che si trattasse solo di parole e concetti vuoti e «l'intervista di Sky lo confermava».
«Lontanissima dall'essere una leader forte, di mediocrità intrinseca, è debole e confusa. Mentre la destra la descrive come una forte negoziatrice, la May è diventata premier di default», scrive Crane, perché tutti, da Boris Johnson ad Andrea Leadsom, erano fuori dei giochi prima di iniziare.
Brexit, brexiters e Maybot. È imperativo che Brexit non avvenga. L'ha detto più volte Tony Blair, l'ex primo ministro inglese: il damage, il danno economico e politico sarebbe troppo forte da sopportare. L'ha detto l'ultima volta in tv a Sophy Ridge on Sunday, mentre il team per le negoziazioni della Brexit arrivava a Bruxelles per la prima settimana di incontri per gestire l'uscita dall'Unione Europea. Che la leader, al momento, non sa come affrontare.
La May ha sfidato la corte suprema sulla possibilità di non voto del Parlamento sull'articolo 50 e ha perso. «Una leader forte non dovrebbe avere paura del suo Parlamento. Dopo tutto, per i Brexiters il voto voleva dire un ritorno alla sovranità del Parlamento stesso. La Maybot sembrava non tenere ad alcunché se non alla sua sopravvivenza», scrive Crane.
«Il suo successo è dovuto al suo mutismo, al suo silenzio. È sembrata la più credibile che c'era in giro. Se i conservatori non potevano avere un'altra Maggie – la Thatcher-, un pasticcio di seconda classe era la cosa migliore. Al suo primo discorso a Downing Street, esattamente un anno fa, in questo periodo, ha detto che avrebbe governato nell'interesse di chi era stato lasciato indietro dal processo politico. Da allora in poi, una sola cosa ha dominato la sua agenda: la Brexit», scrive Crane, che l'ha battezzata Maybot e molta parte della Gran Bretagna l'ha ascoltato.
Tre milioni di cittadini vivono in Gran Bretagna e un milione di inglesi vivono in Europa. Quasi tre bambini su dieci, in Inghilterra e Galles, sono nati l'ultimo anno da madri straniere. Le statistiche mostrano che il 28,2% dei neonati -196mila, per la precisione- sono venuti alla luce in un paese che non ha dato i natali alle loro madri. Nel 1990 erano solo l'11,6%, nel 2006 erano il 21,9%, nel 2011 erano il 25,5% e da allora le proporzioni sono in crescita. I genitori arrivano specialmente da Polonia, India e Pakistan.
Quali saranno i diritti di europei e non europei adesso? E quanto dovrà pagare la Gran Bretagna per il divorzio? Questo exit è l'issue di ogni cittadino inglese. Nigel Sheinwald, ex ambasciatore inglese all'Unione Europea, dice che le chance che falliscano i negoziati sono uno su tre, a meno che il Regno Unito non acquisisca un approccio più realista sul “divorce bill”. La Brexit ha diviso l'Europa, ma adesso sta dividendo anche la politica inglese.
La chiamano Maybot su internet. Ai comizi. Per strada, mentre protestano e agitano cartelli dove c’è scritto “tories out”, fuori i conservatori e “never trust a tory”, non fidarti mai di un conservatore. Oppure “Let summer end May”, lascia che l’estate si porti via maggio, il cognome della premier, May. Eppure sono rimasti in pochi a chiamarla ancora così in Gran Bretagna. È ormai per molti la Maybot.
L’ultimo termine del lessico urbano inglese – ma già annoverato tra le parole esistenti nell’ufficiale dizionario Collins – è nato da due parole che i britannici stanno associando spesso: Theresa May e robot. La parola l’ha coniata l’autore inglese John Crace dopo che la premier ha concesso un’intervista a un reporter di Sky news. Il giornalista le chiede: «Ha dei piani per l’accordo commerciale della Brexit?». La May ripete come sempre qualcosa sull’articolo 50, sul referendum, sul people, popolo. «Gli ultimi cocci di Theresa May stavano combattendo per uscire fuori dall’automa. Poi il malaware ha preso di nuovo il sopravvento», scrive Crane, stanco, come tutti i suoi connazionali, degli slogan vuoti della sua premier.
«Lei non faceva parte della campagna del Leave, non era primo ministro durante il referendum e lei non ha un mandato», dice il giornalista. Sono determinata, dice la May. Determinata a fare cosa, chiede il giornalista? La premier balbetta altre frasi fatte e poi tace.
Per molti mesi, scrive lo scrittore, la May se l’è cavata ripetendo questa frase: Brexit means Brexit, Brexit vuol dire Brexit. Oppure «nessun accordo è meglio di un cattivo accordo», ogni volta che le veniva chiesto di più delle conseguenze e del processo di divorzio dall’Europa. «Se qualcuno si azzardava a richiedere altri dettagli, diceva di non poterli rivelare. Chi era desideroso di crederle, lo faceva». Gli altri, incluso Crane, avevano paura che si trattasse solo di parole e concetti vuoti e «l’intervista di Sky lo confermava».
«Lontanissima dall’essere una leader forte, di mediocrità intrinseca, è debole e confusa. Mentre la destra la descrive come una forte negoziatrice, la May è diventata premier di default», scrive Crane, perché tutti, da Boris Johnson ad Andrea Leadsom, erano fuori dei giochi prima di iniziare.
Brexit, brexiters e Maybot. È imperativo che Brexit non avvenga. L’ha detto più volte Tony Blair, l’ex primo ministro inglese: il damage, il danno economico e politico sarebbe troppo forte da sopportare. L’ha detto l’ultima volta in tv a Sophy Ridge on Sunday, mentre il team per le negoziazioni della Brexit arrivava a Bruxelles per la prima settimana di incontri per gestire l’uscita dall’Unione Europea. Che la leader, al momento, non sa come affrontare.
La May ha sfidato la corte suprema sulla possibilità di non voto del Parlamento sull’articolo 50 e ha perso. «Una leader forte non dovrebbe avere paura del suo Parlamento. Dopo tutto, per i Brexiters il voto voleva dire un ritorno alla sovranità del Parlamento stesso. La Maybot sembrava non tenere ad alcunché se non alla sua sopravvivenza», scrive Crane.
«Il suo successo è dovuto al suo mutismo, al suo silenzio. È sembrata la più credibile che c’era in giro. Se i conservatori non potevano avere un’altra Maggie – la Thatcher-, un pasticcio di seconda classe era la cosa migliore. Al suo primo discorso a Downing Street, esattamente un anno fa, in questo periodo, ha detto che avrebbe governato nell’interesse di chi era stato lasciato indietro dal processo politico. Da allora in poi, una sola cosa ha dominato la sua agenda: la Brexit», scrive Crane, che l’ha battezzata Maybot e molta parte della Gran Bretagna l’ha ascoltato.
Tre milioni di cittadini vivono in Gran Bretagna e un milione di inglesi vivono in Europa. Quasi tre bambini su dieci, in Inghilterra e Galles, sono nati l’ultimo anno da madri straniere. Le statistiche mostrano che il 28,2% dei neonati -196mila, per la precisione- sono venuti alla luce in un paese che non ha dato i natali alle loro madri. Nel 1990 erano solo l’11,6%, nel 2006 erano il 21,9%, nel 2011 erano il 25,5% e da allora le proporzioni sono in crescita. I genitori arrivano specialmente da Polonia, India e Pakistan.
Quali saranno i diritti di europei e non europei adesso? E quanto dovrà pagare la Gran Bretagna per il divorzio? Questo exit è l’issue di ogni cittadino inglese. Nigel Sheinwald, ex ambasciatore inglese all’Unione Europea, dice che le chance che falliscano i negoziati sono uno su tre, a meno che il Regno Unito non acquisisca un approccio più realista sul “divorce bill”. La Brexit ha diviso l’Europa, ma adesso sta dividendo anche la politica inglese.