Panchine anti bivacco, spunzoni, paletti, dissuasori sonori. Potrebbe sembrare un’antologia delle torture, invece è parte dell’arredo urbano che sta riempiendo i centri cittadini. Pensato, non a caso, per luoghi sempre più inospitali verso chi non “fa girare l’economia”

Grossi blocchi di cemento, disposti uno a fianco all’altro, sui quali insistono dei pezzi di ferro a forma di piramide. Sono stati disposti sotto ad un cavalcavia nella città – a guida Pd – di Bolzano. Lo scopo di questi oggetti così apparentemente bizzarri? Impedire ai senza tetto di poter sostare o dormire al riparo del ponte. L’oggetto, che ha suscitato numerose polemiche e la difesa del sindaco Caramaschi («è un intervento dettato da ragioni di sicurezza a garanzia dell’incolumità di chi cerca riparo sotto i ponti», «sotto i ponti passano i cavi dell’energia elettrica, le tubature del gas…»), potrebbe in effetti sembrare un marchingegno bizzarro e isolato ma basta aguzzare la vista nei centri delle città italiane per capire che si tratta dell’ultimo ritrovato di un inquietante catalogo di “dispositivi anti povero”, che stanno letteralmente riempiendo gli spazi pubblici.

Panchine con braccioli che impediscono di potersi sdraiare, spunzoni anti seduta disposti davanti a vetrine, pensiline del bus arredate con listarelle di legno inclinate a 45° su cui poter sostare solo pochi minuti, dissuasori sonori che emettono un sibilo deterrente, appena distinguibile per gli over 25 ma insopportabile per i più giovani (si, esistono davvero: è stato usato a Trento sul portale di Santa Maria Maggiore): tutto ciò viene chiamato “architettura ostile”, o “architettura difensiva”.

Che i centri urbani italiani siano sempre più inospitali verso chi si trova in stato di povertà assoluta non è certo una novità, lo dimostra anche il recente e drammatico sgombero della palazzina occupata da 800 richiedenti asilo eritrei in via Curtatone a Roma. Ma questi arredi, che richiamano (non troppo) vagamente strumenti di tortura medievali, sono una spia, un segnale rivelatore, che consente di disinnescare almeno per un attimo l’ideologia del “decoro” e le chiacchiere sulle “città vetrina”, e capire quanto siano diventate crudeli nei confronti della popolazione più in difficoltà i centri urbani – grandi e piccoli – in cui viviamo.

«I sociologi in Francia hanno dato una definizione per questi oggetti: “arredo a vocazione disciplinare”. Cioè, arredi vocati a disciplinare l’accesso agli spazi pubblici», spiega a Left Ilaria Agostini, ricercatrice di Tecnica urbanistica all’Università di Bologna.

«La panca senza schienale, le fontane che escono a getto da terra, per impedire lo stazionamento, tutte quelle forme di metallo a piramide che ti impediscono la seduta sui gradini – prosegue la ricercatrice – sono strumenti utilizzati non più solo dai privati ma anche dai comuni». Al contrario di quanto potrebbe sembrare, si tratta di una svolta importante a proposito di diritti. «Si sta applicando in città quello che i giuristi chiamano lo ius excludendi alios, ossia una facoltà connaturata da sempre alla proprietà privata – per cui posso escludere un terzo dall’uso di una cosa in mio possesso». Inoltre, «lo si fa in nome di una sicurezza che è una sicurezza “proprietaria”, è la tutela di una proprietà da difendere e non dell’incolumità dei cittadini. Perché a chi si impedisce di sedersi in genere? A un senza fissa dimora, non stiamo parlando di gente armata. Il sindaco in questi casi – sostiene Agostini – si comporta come il proprietario di un centro commerciale».

Si tratta di quel processo che lo storico dell’architettura Iain Borden ha definito mallification, centrocommercializzazione, la dottrina urbana a causa della quale è sempre più difficile trovare un posto per sedersi in uno spazio pubblico, senza essere costretti a consumare beni o servizi. In particolare nelle location nei luoghi in cui la povertà deve essere nascosta, messa sotto al tappeto. Località queste – direttrici principali, vie dello shopping, piazze storiche, ma anche stazioni dei treni – che diventano vere e proprie “zone rosse”, il cui accesso è regolato: se sei un turista o un acquirente sei il benvenuto, se sei un senza fissa dimora oppure vorresti solamente vivere la città senza spendere, allora la scomodità è garantita.

Ad assicurarla ci pensa un design “antipatico”, come scrive il blogger di cultura e tecnologia Flavio Pintarelli sulla rivista online The Towner, design dichiaratamente pensato per «limitare gli usi di un elemento di arredo urbano soltanto a quelli che il committente ritiene siano leciti e accettabili». Ma, prosegue Pintarelli, «il problema, alla sua radice, sta tutto qui ed è una questione di definizione: chi giudica se un comportamento (e non si parla di illeciti, ndr) è accettabile o meno? A chi spetta l’onore e l’onere della decisione?». I comportamenti accuratamente attaccati da tecnici e urbanisti – è chiaro – rappresentano tutta quella gamma di posture e atteggiamenti tipici della povertà: sia perché questi non hanno solitamente nulla a che fare con il consumo, sia perché potrebbero disturbare la vista del consumatore, e violare il suo “diritto” a fare shopping in metropoli vetrina senza essere disturbato dalla visione oscena dell’indigenza. Perché è il povero, e non la povertà, ad essere presa di mira, in questa lotta di classe dall’alto verso il basso a colpi di design, che provoca uno “sgombero continuo” di persone “indesiderate” dalle polis postmoderne occidentali.

Secondo il professor Enzo Scandurra, docente di Sviluppo sostenibile per l’ambiente e il territorio all’Università La Sapienza di Roma ed autore di Città morenti e città viventi (Meltemi editore, 2003), siamo di fronte al tramonto di una idea “ospitale” di città. Questi arredi – spiega – «sono la manifestazione più evidente di come il concetto di città sia cambiato, a partire dalle prime leghe dei comuni, quando essi gareggiavano fra loro per la costruzione di architetture di accoglienza». «Le prime grandi opere urbane come gli spedali lungo le rotte dei pellegrinaggi – prosegue il professore – in cui il pellegrino si fermava per avere soccorso e poi riprendere il proprio cammino, erano opere pensate per dare ospitalità a tutti. Questa tradizione architettonica è stata del tutto smantellata, oggi siamo appunto all’opposto. I comuni gareggiano tra loro per chi fa opere di “inaccoglienza”, per chi caccia l’estraneo, lo straniero».

Il grimaldello ideologico che ha permesso di compiere quella che Scandurra definisce una «mutazione genetica» dei comuni italiani è la cosiddetta “ideologia del decoro”. Il decoro, termine sempre più tirato in ballo dalle amministrazioni pubbliche: dai comuni con la galassia di ordinanze “per il decoro”, allo Stato col decreto Minniti Orlando sulla sicurezza urbana del febbraio 2017, nel quale il termine compare ben sette volte.
Ma cosa significa veramente la parola decoro? Come scrive Tamar Pitch, docente di filosofia del diritto all’Università di Perugia e autrice di Contro il decoro (Laterza, 2013) il decoro è «sinonimo, appunto, di “dignità, contegno, convenienza, discrezione”… Ma se i ricchi possono essere “discreti”, forse “dignitosi”, ben difficilmente saranno definiti “decorosi”. Decoroso è chi sta nei limiti… e dunque una analisi dei limiti può dire molto riguardo ai processi del controllo sociale».

«Decoro è una parola fascista – chiosa in modo tranchant Scandurra – e rappresenta la distorsione securitaria dell’idea di bellezza, idea che la città contemporanea ha rifiutato e che con il decoro non ha nulla a che fare». La bellezza, appunto. Forse la “riconquista” del senso di ospitalità nelle città potrebbe ripartire da qui.

 

L’articolo di Leonardo Filippi è tratto da Left n. 35 del 2 settembre 2017


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