La bambina, dicono le carte dell’inchiesta, è “alta un metro e 55 e pesa 40 chili”. Oggi ha 16 anni ma ne aveva 13 quando sono iniziate le violenze: la violentavano in nove. A volte a turno. A volte tutti insieme. Poi, quando avevano finito, la costringevano anche a rifare il letto, come ultimo sfregio di una donna che, piaccia o no ai Salvini di turno, qui da noi è spesso vista come strumento di piacere e di riordino.
I responsabili dello stupro (rei confessi e condannati in via definitiva) sono italiani, italianissimi: c’è il rampollo di mafia Giovanni Iamonte, che la Procura descrive come «rampollo di un esponente di spicco della locale cosca della ’ndrangheta, soggetto notoriamente violento e spregiudicato», c’è Antonio Verduci, figlio di un maresciallo dell’Esercito e c’è anche Davide Schimizzi, fratello di un poliziotto che al telefono lo istruiva su come affrontare gli interrogatori.
Tutto accade a Melito Porto Salvo, in uno di quei paesi in cui l’arrivo di migranti, seppur minori non accompagnati, viene vissuto come un “rischio per la sicurezza” mentre in realtà la “sicurezza” ha cominciato a marcire da un bel pezzo. La storia, che risale a un anno fa, è stata presto dimenticata poiché cozza con l’idea strumentale dello stupro come arma politica contro il migrante, qualsiasi migrante.
Così vale la pena ripescarla per riportare le frasi degli italianissimi compaesani di quella bambina sfregiata durante la marcia di solidarietà organizzata esattamente un anno fa: «Se l’è cercata!». «Ci dispiace per la famiglia, ma non doveva mettersi in quella situazione». «Sapevamo che era una ragazza un po’ movimentata», «Una che non sa stare al posto suo». Il preside si affrettò a dire che «la scuola non c’entra, ognuno deve pensare alla sua famiglia».
Ed è una storia che provoca nausea e indicibile dolore. Come molte altre. Ma vale la pena esporla ancora perché la ferocia, qui da noi, soprattutto se italiana, ci mettiamo pochissimo a seppellirla.
Buon mercoledì.