Gli interventi di riqualificazione delle città possono esacerbare o ridurre le disuguaglianze. Ormai, però, le dinamiche finanziarie hanno la priorità sulle scelte che possono migliorare la qualità urbana e con essa la qualità della vita dei cittadini

Rigenerazione, riqualificazione, recupero urbano… o ancora, cercando in altri contesti e in altre lingue, redevelopment, renewal, rénovation e renouvellement (limitandosi a inglese e francese). Sono alcune delle parole che possono essere usate per definire gli interventi sulla città esistente. Queste parole non sono neutre e ognuna porta con sé un mondo di riferimenti culturali e inquadramenti teorici e parla di diversi equilibri nei rapporti tra città, economia e società. Curiosamente tutte queste parole, nonostante il prefisso che lascia pensare al ripristino di una condizione precedente, parlano di trasformazioni, operazioni e politiche i cui esiti spaziali producono cambiamenti e innovazioni anche radicali nelle città coinvolte.

A partire dalle crisi economiche degli anni 70 e poi negli anni 80 e 90 con la progressiva deindustrializzazione, i progetti urbani iniziarono ad intervenire su parti consolidate di città per dare nuova qualità e nuove funzioni ai tessuti urbani esistenti. In tempi più recenti, con la maggior parte della popolazione mondiale che vive nelle città, le trasformazioni urbane hanno dovuto confrontarsi anche con molte altre tematiche come la sostenibilità ambientale e la riduzione del consumo di suolo, la finanziarizzazione delle dinamiche urbane e la crescita del modello di città neoliberista, la crisi della rappresentanza democratica e dello Stato sociale. In questo sovrapporsi di stimoli e condizioni, l’idea di società, e quindi l’idea di città, è alla base delle azioni dei decisori, locali, nazionali o sovranazionali, attori pubblici o privati del continuo succedersi di trasformazioni urbane.

Ad esempio, la possibilità di ospitare grandi eventi, diventa un’occasione per ridefinire il volto di intere città, come è successo per le Olimpiadi, a Pechino come a Londra o a Rio de Janeiro. Queste grandi trasformazioni urbane, però, sono state anche il momento per allontanare e nascondere le classi più deboli che, pur essendo forza lavoro necessaria al funzionamento delle grandi megalopoli internazionali, avrebbero potuto interferire con la costruzione del nuovo immaginario e brand cittadino utile al marketing e all’aumento della competitività e attrattività urbana. Questi fenomeni di espulsione e sostituzione degli abitanti sono stati evidenti in realtà polarizzate come quella cinese o brasiliana, ma non sono mancati anche a Londra…

L’articolo di Camilla Ariani prosegue su Left in edicola


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