Alcuni partono con l’aspirazione di ritornare. Altri rimpatriano quando le speranze riposte nel progetto migratorio vengono deluse. Ma tutti – impossibile stimare quanti siano – lo affrontano con coraggio. Perché ritornare nei paesi di origine è più difficile che migrare. Sia perché si lasciano alle spalle le più avanzate economie europee, a volte un lavoro, una casa e una rete di rapporti che hanno costruito a partire da zero. Sia perché il ritorno, soprattutto in tempi brevi, porta con sé il pregiudizio di un fallimento.
E nonostante una lingua complessa da capire, una cultura diversa, spesso, ostile, e gli affetti lontani, la migrazione, anche quando non arricchisce materialmente, è, comunque, un’esperienza che porta conoscenza. E il ritorno nelle terre natìe, con quel bagaglio, è il coronamento di una realizzazione, non solo economica. E’ immaginato come possibilità di sviluppo, grazie alle competenze acquisite in Italia e rimesse in gioco nel paese di provenienza, dove poter contribuire alla crescita in maniera attiva.
È la storia di Ndary, Mouhamed e Karou, raccontata nel webdoc Demal Te Niew – Và e torna, in lingua wolof – realizzato nel 2016 con il contributo dello European journalism center, che parla di riscatto, riuscita e nuove opportunità (lo potete vedere qui). «Come un cocco, nero fuori e bianco dentro», Karou, arrivato nelle valli bergamasche da Thies, a un’ora di distanza da Dakar, ha deciso di ritornare in Senegal, dopo quindici anni di vita a Bergamo, un contratto a tempo indeterminato, una moglie italiana e sei figli, perché in Italia è «tutto saturo» mentre il Senegal può offrirgli opportunità imprenditoriali in un mercato tutto nuovo che «permette a chi arriva da un altro paese, ma al tempo stesso conosce il contesto locale, di sfruttare al meglio quello che ha imparato all’estero». A costo di complicarsi l’esistenza. Perché chi rientra «si trova a dover rinegoziare la legittimazione e l’intellegibilità morale della propria rinnovata presenza nelle reti sociali di cui fa parte», spiegano gli autori del progetto Ritorno in Senegal.
Allo sforzo umano ed economico si sommano le incombenze burocratiche: in primo luogo, per intraprendere il viaggio di ritorno è necessario possedere il permesso di soggiorno italiano, obbligatorio, quindi, non solo a vivere legalmente nel Belpaese ma, anche, per poter scegliere di andare via; poi, i programmi governativi di rientro assistito per i migranti prevedono aiuti che vanno poco oltre il pagamento del biglietto aereo; e, in ultimo, i progetti che tentano di sostenere l’imprenditorialità attraverso strumenti finanziari per l’accesso al credito non sempre sono efficaci, tendenti, come sono, a sovvenzionare progetti nei settori di nicchia, inaccessibili ai più. Rimpatriare, poi, equivale a perdere i contributi previdenziali versati allo Stato italiano perché non cumulabili con quelli realizzati in patria con la conseguente perdita della pensione minima.
Definire i migranti di ritorno come coloro che, dopo un periodo di vita all’estero, decidono di tornare nel Paese d’origine è alquanto riduttivo. Sono motori di sviluppo, portatori di capitale, di abilità e attitudini acquisite nei paesi più ricchi; fungono da trait d’union tra lo sviluppo sociale e le pratiche locali delle comunità e sono risorse indispensabili per trarre vantaggio in termini di pace e sicurezza. Essere un migrante di ritorno significa essere una vita, due paesi e una pluralità di ritorni.
Il 9 novembre ore 19 al Cinema Arsenale di Pisa sarà proiettato il web doc Demal te niew – la strada dei migranti, con Silvia Lami, Viola Bachini, Daniele Fadda (soBigData), Roberto Malfagia (La Jetée), Francesca Zampagni (Scuola superiore Sant’Anna)