Da bambino aveva deciso di diventare medico per guarire le persone che le preghiere di suo padre, pastore protestante, non riuscivano a salvare. È nata così la vocazione del “dottore che ripara le donne”, il congolese Denis Mukwege, che nel ‘99 ha fondato il Panzi Hospital a Bukavu, Sud Kivu, dove ha già curato più di 50mila donne vittime di violenza sessuale. Oggi che il Congo soffre per l’ennesima crisi – con il conflitto che devasta la regione centrale del Kasai e gli scontri, mai del tutto sedati, in Nord e Sud Kivu – l’incertezza per la situazione politica è ancora più pesante e forse toccherà proprio al Mukwege l’ingrato compito di convincere il presidente ad andarsene. Joseph Kabila infatti si ostina a rimanere al potere nonostante il suo mandato sia scaduto nel dicembre 2016 e sono molti, in Congo, a chiedere che sia proprio il “medico delle donne” a gestire un governo di transizione che riporti la legalità nel paese in attesa che si tengano le elezioni, in teoria previste per la fine dell’anno ma di fatto del tutto improbabili per i ritardi della Commissione elettorale, i disordini interni e per le manovre dello stesso Kabila che, al governo dal 2001, vorrebbe mettere mano alla Costituzione per potersi ricandidare. Mukwege non si sbilancia ma è possibile che presto debba mettersi al servizio del suo paese, come ama ripetere, non soltanto come medico ma anche come politico.
Qual è attualmente la situazione nel suo paese?
«In Congo assistiamo ad uno stallo: non c’è stato il progresso che ci saremmo potuti aspettare con la fine della guerra e, nonostante l’accordo di pace sia stato firmato nel 2002, la gente continua ad essere assassinata. Di fatto non è cambiato niente. In particolare quello che mi tormenta è che non siamo riusciti a mettere fine alle violenze sessuali: uno stupro devasta la vita di una donna e quante sono in questa condizione e non riescono a dirlo? Non c’è giustizia per le vittime: nel mio paese regnano solo la menzogna e la negazione del dramma».
La chiamano “l’uomo che ripara le donne”: un riconoscimento e una responsabilità molto impegnativi. .
«E’ qualcosa che non ho cercato ma che mi si è imposto e a cui non ho potuto sottrarmi. Sono di formazione ginecologo e ostetrico e durante il mio lavoro ho potuto verificare che le mie pazienti avevano ferite estremamente gravi: all’inizio pensavo che si trattasse di una situazione passeggera, ma con il tempo ho dovuto rendermi conto che ero di fronte a un problema sistematico. Non ho potuto fare altro che prendere in carico le vittime delle violenze sessuali: le donne infatti non avevano solo ferite fisiche ma anche psicologiche, soffrivano di esclusione sociale e avevano bisogno di giustizia; per questo a Bukavu abbiamo concepito un modello per sostenere le donne da tutti i punti di vista, dalle cure mediche all’assistenza legale».
Lei ha ricevuto nel 2014 il Premio Sacharov per il suo impegno. E’ stato soltanto un gesto formale o l’Occidente supporta il suo lavoro?
«Ho sempre detto che un riconoscimento ha senso soltanto se aiuta a eradicare il male che si combatte, altrimenti non ha valore. Il premio Sacharov ha dato visibilità al problema, oggi sappiamo che quando cerchiamo di dare voce a chi non ce l’ha almeno troviamo degli interlocutori.
Ora dobbiamo chiedere alla comunità internazionale che si muova con decisione, come ha fatto per le armi chimiche e le mine antiuomo, e che metta al bando una violenza che coinvolge milioni di donne in tutto il mondo e che viene usata come arma di guerra, perché distrugge l’integrità fisica e psichica della donna ma anche i legami famigliari e sociali di intere comunità».
Si può fare un lavoro di prevenzione?
«L’educazione contro la violenza sessuale va fatta molto presto, intervenendo per smontare gli stereotipi di genere. Per esempio, se dici a un ragazzino “non piangere come una bambina”, insegni ai maschi a non mostrare le emozioni; stiamo continuando a perpetrare questa educazione patriarcale, non solo in Africa ma ovunque, anche in quei paesi in cui l’eguaglianza fra i sessi sembra raggiunta. L’educazione sessuale è fondamentale: se rendiamo il sesso un tabù e non ne parliamo, i nostri figli troveranno su internet quello che cercano. Il silenzio è alleato degli stupratori; da un lato chi violenta sfrutta a suo vantaggio il fatto che non se ne parli, mentre la vittima tace per vergogna e paura di essere discriminata. In Congo abbiamo un grave problema di impunità dello stupratore, perché la donna deve provare di aver subito violenza e molte vittime non osano farlo perché se denunciano vengono escluse dalla comunità».
Lei ha subito un attentato nel 2012 ed è tuttora sotto protezione dei caschi blu dell’Onu. Come vive questa condizione personale?
«È molto dura, non lo nego, ma l’enorme capacità di reazione delle donne non mi permette di far altro che combattere al loro fianco. Soffrono di dolori inimmaginabili ma quando si risvegliano da un’operazione non mi chiedono mai “che cosa sarà di me?”, il loro primo pensiero va sempre ai bambini, o al marito. Le donne sono capaci di vivere per gli altri, mentre la stessa cosa non si può dire dei maschi. Hanno un coraggio eccezionale: me ne sono andato dal mio paese quando mia figlia è stata rapita ma loro hanno venduto frutta e verdure per raccogliere i soldi del biglietto e farmi tornare. Che cosa potevo fare di fronte a questo?».
Quante donne ha curato nella sua carriera?
«Ad oggi all’ospedale di Panzi abbiamo curato almeno 50mila donne ma questo non sembra scuotere per nulla l’opinione pubblica. In ogni caso non amo fare conti perché sui numeri si può fare speculazione e inoltre cambiano ogni giorno: non sono le cifre che devono spingerci a reagire ma la consapevolezza che dietro un numero c’è un essere umano. La cosa che mi fa più male è quando curo delle bambine poco più che neonate, quando devo intervenire sul perineo distrutto di bambine di dodici, diciotto mesi: la più piccola che ho operato ne aveva appena sei. Per me sono queste le situazioni più difficili da affrontare».
Ha un successore? Qualcuno che segue il suo esempio?
«C’era un ginecologo che aveva la mia stessa formazione (Gildo Byamungu Magaju, direttore dell’ospedale di Kasenga, Sud Kivu, ndr); un medico come me. E’ stato assassinato a fine aprile».
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