Sua moglie è lontana e lui è chiuso in uno stato-prigione in miniatura. Intorno alle sbarre e le reti del campo migranti dove è rinchiuso, si chiede: «non ho mai tenuto mia figlia tra le braccia, quando lo farò?». La figlia di Mohamed Farahi è nata una settimana fa e lui ha paura che non la vedrà mai, prigioniero da quattro anni tra il Pacifico e l’inferno, sull’isola di Nauru, in Papua Nuova Guinea.
Arash è un ingegnere digitale iraniano, è scappato nel 2013 perché perseguitato dal regime di Tehran. Nello stesso campo di Mohamed, dopo anni di detenzione, ha incontrato e sposato una rifugiata somala della quale si era innamorato sull’atollo della disperazione. I cinquanta ospiti al loro matrimonio avevano sorriso almeno un giorno, tra le condizioni disperate di sempre. Adesso la moglie di Arash è stata trasferita sulla terraferma a Brisbane, ma lui non le stringerà le mani mentre lei versa in condizioni gravissime. Suo figlio nascerà, e – anche lui, come Mohamed- , potrebbe non vederlo mai.
Questi sono gli ultimi racconti dei rifugiati in arrivo da quel pezzo di terra alla deriva che è Nauru, lontana dalla terraferma australiana 300 chilometri ed ancora più lontana dal rispetto dei diritti umani. Arash e Mohamed sono alcuni di tutti quei migranti, figli dell’esodo, che hanno tentato di raggiungere l’Australia senza riuscirci, lungo una rotta sconosciuta ai più.
Le isole Nauru e Manus sono note come le “Guantanamo australiane”, sono il volto feroce che Sydney non sa più nascondere. Sulle isole finiscono i rifugiati sopravvissuti alle onde e alla guardia costiera; 1200 persone, invece, sono morte in acqua dal 2007 al 2014, su imbarcazioni di fortuna, senza che nessuno fornisse loro aiuto.
«L’esperimento australiano è inumano», ha detto Eleine Person, Human Right Watch. L’Onu ha parlato di “condizioni orride” nei campi-prigione che l’Australia ha costruito a suon di milioni per fermare il flusso dei migranti. Un’enciclopedia dell’orrore di queste isole è chiusa nei “Nauru files”, lunghi 8mila pagine: i fogli di denuncia sono gravidi di violazioni e crudeltà, ma soprattutto di abusi sui minori. Sui 2116 casi di stupro, abusi sessuali e mentali, percosse, umiliazioni, torture, 1086 riguardano bambini. Ai rifugiati è accaduto non in Siria, non in Iraq, non dal Medio Oriente da cui scappavano, ma in un territorio che batte bandiera della democrazia australiana.
Sull’isola di Nauru il tasso dei suicidi è altissimo, come quello dell’autolesionismo. Come quello degli abusi su minori. L’ultimo suicidio è stato registrato il 2 ottobre scorso. Nel 2016 c’è chi ha scelto il fuoco per togliersi la vita. Si chiamava Omid Masoumau, era un migrante iraniano. Lungo la rotta del sud, aveva rischiato tutto per il futuro, ma non ha resistito ai giorni della disperazione quotidiana sull’isola. Sono sempre più le voci che adesso, in coro, si levano per chiedere la chiusura dei campi della vergogna e il trasferimento dei profughi.
I primi rifugiati, dopo quattro anni, questa settimana lasciano l’isola. Si lasceranno alle spalle i 21 chilometri quadrati dell’atollo, ma una delle condizioni per farlo è essere o partire “single”, per essere trasferiti da soli negli Stati Uniti. “Just single man” è la condizione per essere ridistribuiti e reinseriti in strutture in Georgia, Texas, Oregon, Colorado. Cioè chiedono, dice Arash, di scegliere tra la libertà e la famiglia.
Se i primi migranti riescono ad abbandonare l’isola-prigione, è per un accordo stretto dall’amministrazione Obama, che accettò di accogliere 1250 migranti ad una condizione: che i profughi in cerca di futuro arrivassero da Afghanistan, Sri Lanka e Iran. In cambio l’Australia avrebbe accolto gli uomini fuggiti dal “triangolo del nord”, che ha le sue sponde in Honduras, Guatemala, El Salvador. Il team di Trump, dopo accelerazioni, trattative e rinvii, nel 2017 ha deciso di onorare l’accordo di anni fa.
Manus è un’isola di soli single man ed il 31 ottobre chiude. Alcuni dei suoi abitanti partiranno, in totale saranno 54 gli uomini che ricominceranno una vita nuova nel paese di Trump dopo anni trascorsi sull’isola. Dove finiranno il resto dei seicento rifugiati che vivono nel campo non è chiaro, l’Australia non ha ritenuto opportuno specificarlo. Forse verranno trasferiti su altri atolli, cambieranno solo topografia dell’inferno, o forse saranno costretti a tornare indietro, in quei paesi dalle cui coste erano salpati anni prima. Intanto le proteste aumentano, i migranti si rifiutano di abbandonare un posto dove ad alcuni manca perfino elettricità, cibo, acqua, un’isola che doveva essere la soglia d’ingresso nel mondo nuovo, invece è diventata l’oblò da cui osservarlo da lontano, come da dietro un vetro, dove devono ricordare ogni giorno che il futuro è terra incognita.