I segnali che arrivano dal lontanissimo Mali non sono buoni. Non si terranno più le elezioni che erano previste in questo mese, tra qualche giorno, prima dell’inizio del nuovo anno. La settimana scorsa il governo ha deciso di rimandare municipali e regionali, per “questioni di sicurezza”. Sicurezza è una parola che nello Stato africano occidentale viene usata in una variante tutta sua. Non andare alle urne è “un pessimo segnale per le prospettive a lungo termine”, dicono gli analisti. La scelta dei politici e dei governatori è stata rimandata ad aprile 2018, per permettere al governo «di creare i presupposti per elezioni assolutamente inclusive», ha detto Hubert Coulibaly, il ministro delle amministrazioni territoriali dello Stato. Gli abitanti volevano invece votare domenica 17, perché tutto il potere è concentrato nelle mani di pochi che non li rappresentano, pochi che siedono comodi nella capitale, Bamako, che tra la popolazione ha sempre meno legittimità, sempre più torti. Rimandare le elezioni vuol dire che nulla è ancora cambiato in Mali.
La sfida del Mali è ora questa: assicurarsi che tutti i partiti firmino l’accordo di pace tra lo Stato e vari gruppi d’opposizione ribelli che prendono parte al processo elettorale, un patto noto come l’accordo di Algiers, che risale al 2015 e prevede il disarmo, riforme costituzionali e il rispetto delle istituzioni dello Stato nel territorio del nord. Per il presidente francese Emmanuel Macron, nel tour politico in Africa, è la migliore possibilità che ha il Paese per tornare se non alla sicurezza, alla stabilità. I fantasmi della rivolta del 2012, quando morirono in tanti e ancora di più furono sfollati, non hanno fugato timori di una nuova ondata di violenza, di un nuovo colpo di stato, del vuoto politico che si creò allora. Nemmeno le ombre delle orme lasciate sul terreno dagli stivali dell’esercito francese, in quella che è passata alla storia come “Operazione Serval”.
Anche la missione delle Nazioni Unite in Mali, nota come Minusma, è stata letale, la più letale di tutta la storia dell’Onu: 146 soldati degli 11mila spediti per riportare l’ordine hanno perso la vita dal 2013. Gli ultimi attacchi risalgono a pochi giorni fa. Il 24 novembre 4 soldati delle Nazioni Unite e un soldato maliano sono morti mentre decine sono rimasti feriti. È successo al confine del Niger, a Indelimane e Douentza. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha definito queste morti “oltraggiose” e un crimine di guerra. Prima ancora, ad ottobre altri peacekeeper dell’Onu in missione a Bamako sono stati uccisi mentre pattugliavano la zona. L’esplosivo usato era ad accensione remota. La missione francese in corso, l’Operazione Barkhane, è in corso dal 2014, ma ben poco è cambiato. Ancora un altro battaglione, un’unità multinazionale nota come G5-Sahel, con 5mila soldati provenienti dal Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger tenta di controllare la zona da almeno 3 anni, ma senza riuscirci.
Il presidente Ibrahim Boubacar Keita è stato eletto nel 2013, ma nelle aree che sono sfuggite al controllo del potere centrale l’ordine non è mai tornato e i gruppi armati , alcuni dei quali supportati e finanziati da Al Quaeda, sono ancora l’unica autorità presente nel territorio. Il futuro, sanno tutti che sarà difficile. I gruppi che dovrebbero sedersi al tavolo l’uno con l’altro per trovare un accordo comprendono la piattaforma dei Tuareg armati e dei movimenti filo-arabi, e il coordinamento del movimento Azawad. Le elezioni sarebbero state, secondo alcuni di queste organizzazioni, un modo per decentralizzare il potere e trovare una rappresentatività che è a lungo, se non sempre, è mancata nel Paese.
Ma adesso Ibrahim Boubacar Keita rimarrà presidente fino a luglio 2018, se i fucili del nord non compieranno di nuovo un colpo di stato prima delle future urne. Lutto, insicurezza, terrorismo appartengono alla storia del Mali, ma anche la Francia. Il presidente africano ha descritto così la vecchia colonia al suo omologo europeo in visita nella Franceafrique, quasi come una minaccia: «Il Mali è una diga. Se si rompe, l’intera Europa sarà sommersa».