Sono circa centomila i preadolescenti che sono separati dai genitori e che si trovano a percorrere, gli spazi non accoglienti degli istituti di pena. L'associazione Bambinisenzasbarre lancia una campagna perché possano trovare una loro normalità

Fuori da un carcere italiano, alle otto di mattina, sembra una scuola. Una fila di bambini aspetta di incontrare la mamma o il papà detenuto. Sono circa centomila, preadolescenti e piccoli sopra i quattro anni. Perché fino a tre, se a essere reclusa è la mamma, possono stare in carcere con lei. Una norma che, però, è rimasta come un refuso nel varo della legge 62 del 2011, la quale, stabilendo, in maniera sacrosanta, che una mamma con un figlio di età che non superi i sei anni, non debba scontare la pena in carcere e se è reclusa debba essere scarcerata, contempla l’estrema ratio della detenzione in casi particolari e mantiene, di fatto, le cose invariate, nonostante la stessa legge preveda l’istituzione di case famiglia protette (solo due in Italia) per il soggiorno di mamme ree con figli e le Icam, istituti a custodia attenuata per madri (a Milano, Torino, Venezia, Senorbì e Lauro).
E dei bambini che dai genitori, generalmente il papà, sono separati dalle mura carcerarie, vanno definiti i diritti. «Tutelare i figli dei genitori detenuti – dichiara a Left, la presidente di Bambinisenzasbarre, che da quindici anni si occupa di questo tema, Lia Sacerdote – non è una questione di buoni sentimenti. Per questo, nel 2014 rinnovata nel 2016, è nata la Carta dei figli di genitori detenuti, la prima in Europa, che la nostra associazione ha firmato con il ministro della Giustizia Orlando e la Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza».
Dopo che l’Europa ha condannato l’Italia, per ben tre volte, per il mancato rispetto dei diritti umani nelle carceri, negli ultimi tre anni, c’è stata un’accelerazione verso una definizione chiara dei diritti e in direzione di un cambiamento degli istituti di pena. «Dal canto nostro, è necessario sensibilizzare il carcere affinché accolga in modo adeguato questi bambini perché non rimangano invisibili e la società civile per contrastare l’emarginazione di questi minori, condizione che aumenta per il loro rischio di devianza», spiega Lia Sacerdote.
Altrimenti, il circolo vizioso diventa infrangibile: legato alla marginalizzazione, il carcere diventa un destino ineluttabile. Perciò, quello dei figli dei detenuti «è un tema sensibile, di prevenzione sociale – precisa la presidente di Bambinisenzasbarre – e tutelare il mantenimento del legame affettivo fra genitori reclusi e figli diventa un loro diritto da rispettare ma anche strumento di protezione». Perché «è nella continuità del rapporto che i bambini riescono a elaborare la reale separazione necessaria per crescere», aggiunge Lia Sacerdote.
Per attenuare l’impatto con un ambiente potenzialmente traumatico e consentire ai piccoli di orientarsi dentro le carceri, l’associazione ha creato lo ‘Spazio Giallo’ che è «un sistema di accoglienza, attenzione e cura delle relazioni famigliari in detenzione con al centro l’interesse del bambino» e contribuisce al processo di trasformazione degli istituti penitenziari (sulla scia del quale e in applicazione della Carta italiana, il 13 dicembre prossimo, il Ministero di giustizia Dap, promuove in collaborazione con l’associazione un programma pilota di formazione destinato alla polizia penitenziaria per l’accoglienza dei bambini).
Questi temi sono al centro della Campagna nazionale di sensibilizzazione di Bambinisenzasbarre “Dona un abbraccio” e dell’iniziativa “La partita con papà” che si svolge nelle carceri di tutto il territorio nazionale, con il sostegno del ministero della Giustizia-Dap: per i bambini, che si trovano a pagare per un crimine non commesso, è un momento per ritrovare una “normalità” e per la società potrebbe essere un modo di superare i pregiudizi e dare un calcio alle stigmatizzazioni.