Da Gaza fino a Giacarta e a Rabat, in tutto il sud est asiatico e Medio Oriente. In decine di migliaia sono scesi in piazza contro la scelta a stelle e strisce: Gerusalemme è capitale del mondo arabo-islamico, non solo della Palestina.
Le bandiere palestinesi sventolano nel mondo, fino al Cairo, Egitto, mentre piovono lacrimogeni durante le marce in difesa della città divisa, fino a Beirut, Libano. Per la decisione di Trump, che ha scelto di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, dove a causa dello status di città divisa nessuna istituzione diplomatica ha sede, e per la dichiarazione presidenziale seguita, che ha riconosciuto Gerusalemme come “capitale d’Israele”, la protesta araba si moltiplica ogni giorno di capitale in capitale. Ogni città di uno stato musulmano incendia a macchia d’olio quella successiva dello Stato confinante. Dall’Asia fino all’Africa.
Da quando Trump ha parlato, 157 palestinesi sono rimasti gravemente feriti e 4 sono morti a Gaza negli scontri con l’IDF, l’esercito israeliano. Ma la questione palestinese da sempre varca i confini della Palestina, non è una problematica solo geografica, ma religiosa e identitaria. A Beirut, Libano, a volto coperto, molotov e pietre, i ragazzi musulmani hanno combattuto contro i soldati di Trump, il piantone di sicurezza di guardia all’ambasciata americana nella capitale libanese. La polizia di Beirut è intervenuta con idranti e lacrimogeni, mentre il ritratto di Trump, la bandiera americana, insieme a quella israeliana, prendevano fuoco e bruciavano sulle barricate.
Poche parole di Trump sono state «un pericoloso sviluppo che mette gli Stati Uniti in una situazione di parzialità in favore dell’occupazione e della violazione delle risoluzioni e leggi internazionali», è stato detto durante la riunione d’emergenza della Lega Araba. Perfino dove si combattono altre guerre, in Siria e Yemen, la solidarietà degli abitanti è emersa e altre lotte regionali non hanno frenato le proteste. Così è successo anche in Giordania e Malesia, fino in Svezia, a Gothenburg, dove in tre sono stati arrestati per aver attaccato con bombe carta una sinagoga.
Al Cairo, studenti e professori dell’università musulmana al Azhar, hanno cantato per strada «con l’anima e col sangue, ti vendicheremo Palestina», mentre i copti egiziani, della più grande comunità cristiana del Medio Oriente, hanno, con altre parole, dimostrato lo stesso. Anche in Pakistan a Karachi, centinaia hanno camminato armati contro il consolato americano della città, fermati solo dalle divise delle forze dell’ordine anti sommossa.
Tutti i presidenti degli Stati arabi stanno condannando, uno dopo l’altro, la scelta del presidente che infiamma il Medio Oriente. In Tunisia il presidente Beji Caid Essebsi ha chiamato l’ambasciatore americano per condannare il suo governo. In Indonesia, il Paese con più musulmani al mondo, migliaia a Giacarta hanno urlato all’America di fare passi indietro: Gerusalemme non è la capitale dei Palestinesi, ma di tutti gli arabi, per le sue moschee e per la sua storia.
Ad Istanbul, per la scelta della Casa Bianca e del suo presidente, sono scomparse le insegne d’oro dove brillava il nome di Trump nei suoi alberghi e centri commerciali nella città turca. Migliaia hanno incrociato bandiere turche e palestinesi a piazza Yenikapi, i turchi hanno supportato per una volta il loro presidente Erdogan che ha dichiarato “nulla e vana” la scelta dell’omologo americano.
Anche in Marocco, a Rabat, la solidarietà e la rabbia per lo Stato palestinese non riconosciuto e sotto perenne occupazione, hanno guidato gambe e braccia di chi manifestava. Insieme, sotto la stessa bandiera, sotto gli stessi colori, il governo ufficiale e l’opposizione, secolari e conservatori, laici e religiosi, hanno marciato per denunciare una scelta che sta per destabilizzare per sempre la regione. Il ministro marocchino Mohamed Boussaid ha detto che così hanno mostrato fino a Washington la loro «indignazione e insoddisfazione, noi rifiutiamo completamente la decisione di Trump, Gerusalemme è una linea rossa».
Gerusalemme è un confine da non varcare. Su Gerusalemme «gli Stati Uniti hanno varcato la linea» ha detto Mahmoud Abbas, il presidente palestinese che si rifiuta di incontrare ora le autorità americane.
Il presidente israeliano Benjamin Netanyahu intanto si trova proprio ora in Europa. A Bruxelles al Parlamento Europeo ha detto che il riconoscimento di Gerusalemme è una nuova chance per la soluzione, «che non rende ovvia la pace, ma anzi la rende possibile». Alcuni parlamentari, in risposta, hanno deciso di chiedere che Israele paghi per i fondi europei spesi in strutture costruite in Palestina e distrutte dall’esercito nell’area C, quella palestinese ma sotto controllo israeliano. Come gli arabi, anche i membri del Parlamento europeo stanno pensando ora di protestare.